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16 ottobre 2013

Progetto energetico italiano: dal 'nema problema' di Dodik al kokretno di Dacic

Roma – E’ stato un vertice sottotono e spartano, quello tenutosi ad Ancona, per rinnovare la cooperazione intergovernativa tra Italia e Serbia. Protocollo, cerimoniale e diplomazia, sono le parole che possono descrivere l’atmosfera della ratifica di routine dei protocolli di cooperazione, stendendo un velo di silenzio sui temi scottanti della Fiat e del progetto energetico italiano nei Balcani. Mancavano quei giornalisti italiani delle fantomatiche inchieste balcaniche, mentre l’inviato dell’Ansa chiede chiarimenti sul patto di stabilità: sugli investimenti italiani sul mercato serbo nessuna domanda. Naturalmente i colleghi serbi erano più preparati, facendo così al Presidente Letta le uniche osservazioni intelligenti. Il monologo di Dacic - simile a tanti altri interventi scritti per i vertici interstatali di Russia, Cina e Germania - rivolge al pubblico una sola nota critica, che non viene di seguito commentata per “coloro che non avessero capito”. Leggendo non troppo tra le righe le parole del Primo Ministro serbo, traspare un invito al Governo italiano a decidere “concretamente” la sua posizione nel progetto energetico, che coinvolge non solo i rapporti bilaterali ma anche quelli con la Bosnia Erzegovina, e la Republika Srpska. Il “konkretno” viene popolarmente interpretato come una sostanziale richiesta di definire il “come, dove e quando” verrà mobilitato il denaro per ‘concretizzare’ i discorsi.

Il leader serbo sembra aver dimenticato, tuttavia, che il Governo italiano ha dovuto affrontare oltre tre anni di incontri diplomatici e strette di mano, per poter spiegare ai politici, alle società e ai funzionari che occorreva creare una rete energetica regionale per dare alla “macroregione adriatico-ionica” una rilevanza europea, che altrimenti non avrebbe. Sono stati ratificati protocolli e finanziati progetti di fattibilità, tutto a spese dei contribuenti italiani, ma gli esecutivi serbi che si sono succeduti in questi anni non hanno approvato leggi adeguate, né hanno rilasciato i permessi e le autorizzazioni necessarie per on far scadere le concessioni per studi e ricerche. L’incoerenza della classe politica serba trova la sua più alta espressione nel Ministro dell’Energia Mihajlovic che, prima di entrare nel Governo, descriveva la Seci Energia come una “piccola impresa che non poteva competere con la grande EPS statale”. Nelle vesti di ‘istituzione competente’, la Mihajlovic ha placidamente smentito, affermando che sul progetto energetico italiano “non vi è nessun ostacolo da parte della Serbia” e “nessun problema con la Bosnia”. Uno scivolone che ricorda la miope valutazione fatta in prima lettura sull’impianto fotovoltaico di Securum – ottimistica nell’intervista rilasciata all’Osservatorio Italiano, nonostante le nostre riserve – poi divenuta distruttiva, che per molti è diventata la ‘truffa del secolo’ (vedi Parco solare di Securum: per la Serbia è la 'frode del secolo').

VIDEO: Zorana Mihajlovic su contratto energetico con l'Italia

In nome della coerenza, il leader di opposizione della RS Mladen Bosic (SDS) ha definito la Maccaferri “un’azienda che produce maccheroni”, nonostante l’impegno profuso dai faccendieri italiani per presentare bene la “società campione” dell’esecuzione della Drina Media (Srednja Drina). L’importanza e la strategicità della questione era tale che l’Italia non avrebbe dovuto perdere tre anni di lavoro, investendo tutto sul ‘cavallo vincente Milorad Dodik’, che ha ripetuto con testardaggine che grazie alle ‘speciali ed eccezionali’ relazioni con l’allora Presidente Tadic, era possibile escludere lo Stato della Bosnia dalle trattative. Per conquistare il favore dei serbi, è stato addirittura fissato un fugace incontro a Roma con Berlusconi, per fare una foto da far vedere ai colleghi, e una cena con Frattini a Sarajevo. Da lì è partito il tormentone del ‘nema problema’, nessun problema all’orizzonte: l’accordo c’è, l’accordo è stato fatto.


Due anni più tardi, svegliati dal torpore delle diverse informazioni giunte da Bruxelles, i Ministri bosniaci fanno un passo indietro e chiedono la partecipazione formale della Bosnia, non avendo mai ricevuto dal Governo italiano una comunicazione ufficiale, se non attraverso superficiali colloqui con l’ambasciatore. Anche perché la Commissione Europea, per lo sblocco dei fondi, chiede un impegno istituzionale della Bosnia, che si traduca della garanzia statale dell’implementazione, quindi non una banale ‘lettera di consenso’. A farsi portavoce delle ragioni dello Stato bosniaco è addirittura un serbo, o meglio uno storico membro dell’SDS (partito fondatore della Republika Srpska) Mirko Sarovic, che alle pressioni di Dodik di rilasciare il nulla osta, risponde che la richiesta, così come formulata, non può accettata e né viene capita da chi dovrebbe firmare.

Vistosi messo alle strette all’interno, e non ricevendo nessun segnale di sostegno dalla Serbia di Nikolic e Vucic, Dodik decide di scatenare una crisi di Governo, per dimostrare ai suoi interlocutori di essere “un politico che conta”. Non avendo i voti per portare fino in fondo la mozione di sfiducia, lancia sui media la teoria del complotto e cerca di convincere i bosniaci che l’ostacolo alla realizzazione di un grande progetto per il Paese è proprio Sarovic. Ricominciano anche i viaggi tra Belgrado e Banja Luka, chiedendo così alla Serbia di prendere in mano la situazione per superare l’impasse interna. Il risultato è una incredibile storia in stile “balkanski spiun” che, tra doppiogiochisti e traditori, potrebbe isolare maggiormente Dodik. Rompe infatti tutte le alleanze fatte con l’SDS a livello centrale e in ogni singolo comune, e nomina Zlatko Lagumdzija in suo nuovo partner politico, rinnegando la stessa propaganda di partito: smette di essere nazionalista serbo, e diventa portatore della bandiera bosniaca.

Il grande bluff potrebbe anche funzionare, perché comunque Lagumdzija ha detto di sì a tutti. Gli italiani potrebbero quindi avere la ‘carta firmata’ che chiede Bruxelles per sbloccare i fondi, ma con ogni probabilità il progetto non vedrà mai la luce. Mancano al momento tutti i presupposti tecnici e legislativi, tra cui una società operativa per la gestione delle trasmissione elettriche e una legge per la liberalizzazione del mercato energetico. Non bisogna poi sottovalutare il dissenso dei comuni e delle autorità locali, che avendo un controllo del territorio maggiore rispetto al governo centrale, potrebbero scatenare le associazioni civili e le ONG, sino a trovare una rara specie di alga, che cresce solo sulle rive della Drina.

Resta un ultimo interrogativo, ossia se gli illustri funzionari italiani hanno spiegato bene che i fondi arrivano dall’UE, e se i colleghi balcanici hanno davvero capito che non esiste un business milionario. Infatti, solo pochi giorni fa si è tenuto un’accesa riunione a Bruxelles, durante la quale Fule ha promesso sanzioni per la Bosnia con toni minacciosi, nonostante l’accordo era stato propagandato come già raggiunto. Il risultato è stato che, al ritorno, la maggior parte dei presenti non aveva ben capito che tipo di riforma dovevano accettare per avere i fondi IPA, mentre lo stesso Lagumdzija si è detto d’accordo sul principio, ma non sulle carte. Per cui, auguriamo alla Maccaferri di portare a termine questo grande progetto, ed in tal caso il suo presidente sarà proposto come segretario generale ONU per aver “messo d’accordo i bosniaci”. Nella più pessimistica delle ipotesi, potremmo rimetterci nelle mani delle veggenti di Medjugorje, che forse qualche dritta ce la possono anche dare.

03 ottobre 2013

La Stalingrado di Fule

Roma - Si è consumata ieri a Bruxelles la Stalingrado di Stefan Fule. Lo staff della Commissione per l'Allargamento hanno potuto toccare con mano la complessa realtà balcanica, che continua ad essere perfettamente descritta dalla frase di Ivo Andric: "Dove finisce la logica, lì inizia la Bosnia". Il confronto tra i leader politici della Bosnia e i tecnocrati europei sulla riforma costituzionale della Bosnia, e la sua armonizzazione alla sentenza della Corte Europea, è stato molto acceso, con attimi di confusione e panico, tanto che si temeva il ripetersi dello scenario di Butmir. Allora, la conferenza organizzata sotto l'egida degli Stati Uniti, avrebbe dovuto concludersi con la ratifica della 'nuova Costituzione' della Bosnia, ossia una serie di documenti che i rispettivi leader politici avevano ricevuto per conoscenza solo pochi giorni prima. Messi dinanzi a fatto compiuto, i rappresentanti bosniaci si sono rifiutati di apporre una firma 'in bianco', e a nulla sono valse le minacce di isolamento e di taglio dei fondi. I funzionari della Comunità internazionale hanno perso la calma, e l'ambasciatore americano non ha retto all'urto: è svenuto ed è stato trasferito d'urgenza in barella. 

Fule ha avuto una sorte diversa, non è svenuto, ma si è dovuto scontrare con la dura realtà del fallimento diplomatico, perdendo così l'occasione di passare alla storia come l'uomo che ha messo d'accordo i bosniaci, il "Tito europeo". Ha cercato di esercitare delle pressioni, utilizzando la leva del taglio dei fondi IPA e di ogni altra agevolazione finanziaria, ottenendo di contro un secco rifiuto, vista l'inconciliabile incompatibilità di ciascuno dei leader sulla riforma Sejdic-Finci. Dopo la pausa pranzo, i toni sono rientrati nella normalità, congelando per il momento le sanzioni e pattuendo un accordo di "principio" ma non sulla carta, da discutere in colloqui separati i prossimi dieci giorni. In teoria una 'soluzione geniale', nella pratica un 'nulla di fatto', che rinvia ormai per inerzia un processo di riforma che non può avvenire, senza mettere in discussione gli stessi principi del Dayton. Un rebus da cui non si può uscire con i tecnicismi, bensì solo con un compromesso politico storico. E' evidente che l'adesione all'Europa non è tra quelle prospettive che riescono a motivare questo Paese, al punto tale da rinunciare alle rispettive revanche. Forse l'Unione stessa non viene vista come istituzione autorevole, in grado di risolvere gli annosi problemi di uno Stato in crisi perenne.

 

La parentesi bosniaca, tuttavia, è solo una parte della cronaca della disfatta. Nel pomeriggio si fa sempre più pressante il 'caso Albania' che ha portato alla luce, tra le altre cose, anche la grave superficialità dei consulenti tecnici europei. Infatti, se prima hanno assecondato gli intenti 'pre-elettoriali' del Partito socialista, che chiedeva di rinviare l'approvazione di una legge che bloccava le "regalie dello scambio di voti", dopo chiude un occhio sulla sua entrata in vigore. Questo dovrebbe saperlo anche l'ambasciatore Sequi, che ha investito così tanto nella 'sensibilizzazione europeista' degli albanesi, partecipando persino allo show del Grande Fratello di Albania, in occasione della 'Settimana europea'. Tanti sforzi, tuttavia, non hanno avuto i risultati sperati, perché la nuova maggioranza sforna un decreto che entra in vigore il 1° ottobre (accontentando le richieste UE) ma diviene applicabile dopo sei mesi (accontentando i militanti di partito). Un dettaglio che, a questo punto, non è sfuggito agli osservatori più attenti, che hanno richiamato i funzionari europei a mantenere imparzialità e rigidità nel rispetto delle regole di armonizzazione. L'imbarazzo è stato così bruciante, che il portavoce Peter Stano, in evidente difficoltà, ha rilasciato una dichiarazione ridicola e insensata, nella quale afferma che sosterrà l'elaborazione dei regolamenti di attuazione, di un atto che - a dire degli esperti - presenta evidenti limiti di incostituzionalità, rinviando poi alla pubblicazione del rapporto di progresso ogni ulteriore dettaglio. 


La CE cade quindi nei tecnicismi, pur di non prendere alcuna posizione in una vicenda di cui è pienamente responsabile. Lo stesso Stano si rifiuta di rispondere alle domande rivolte dall'Osservatorio Italiano, e quindi di dire chiaramente se questa legge, così come scritta, rispetta o meno i termini per la candidatura dell'Albania, e se l'annullamento dei decreti dell'uscente Governo Berisha mette in discussione la certezza del diritto e gli investimenti esteri. Non rispondere a queste domande è ipocrisia, anche perché i cittadini europei devono essere informati sulla sostenibilità di una macchina burocratica che crea tanti sprechi.  Sono milioni e non ben stimati i costi per redigere studi di fattibilità, consulenze e analisi tecnico-giuridiche delle Commissioni Europee: le regole di trasparenza obbligherebbero la pubblicazione dei bilanci e dei rendiconti delle spese, perché questi funzionari restano pur sempre dei 'dipendenti pubblici'.

In nome dei principi civili su cui si fonda l'UE, dovrebbero essere pubblicate le liste dei consulenti e dei professionisti che  prestano la loro opera di assistenza per la preparazione di leggi e interventi, ma anche che partecipano alla preparazione dei progetti per i fondi IPA. Potremmo eventualmente scoprire che i tanto acclamati fondi di integrazione, solo in minima parte giungono al reale beneficiario, perché una quota importante serve a finanziare i contratti di consulenza. Non è questa l'Europa che gli Stati-nazione volevano creare, perché hanno rinunciato alla propria sovranità monetaria nella convinzione che le strutture sovranazionali sarebbero riuscite a superare i clientelismi, le correnti e le inefficienze. Ma a quanto pare l'UE si sta trasformando in qualcosa di peggiore, incapace ed incompetente, persino nel gestire un banale caso di 'aggiramento delle leggi', ignorando poi il rischio derivante dalla cancellazione massiva dei provvedimenti con il cambio del Governo.

I Balcani, nella loro complessità, stanno quindi mettendo in risalto anche i limiti di questo meccanismo tecnocratico, che dopo aver fatto degli errori con Romania e Bulgaria, ha creato distorsioni anche in Croazia: il Governo croato ha approvato negli ultimi mesi, prima dell'adesione ufficiale, più di 1200 decreti, con innumerevoli errori di traduzione e lacune legislative, che ne impediscono nei fatti l'applicazione. Segnali di malessere politico sono emersi anche in Serbia, dove una campagna elettorale demagogica è stata seguita da una epurazione spietata di amministrazione e cancellerie, nonché arresti e allontanamenti, tutto con il benestare, e talvolta su pressione, degli organi di Bruxelles. D'altro canto, l'accordo con il Kosovo è solo un'immagine di marketing diplomatico, per confermare che l'Europa ha portato a termine un processo di pace; resta ora da vedere quante delle promesse fatte saranno portate a termine, visti gli attriti alle prime difficoltà incontrate.  Meno riconoscimenti sono stati dati all'Albania, nonostante il sincero impegno profuso, perché in questo caso Bruxelles ha scelto di partecipare alla retorica politica, invece di fare il proprio lavoro, ossia garantire il rispetto delle regole, qualunque sia il partito al potere.  Si è quindi prestata ad un vile gioco, al punto da minare la credibilità stessa dell'Europa. E' diventata immagine di demagogia, propaganda, prepotenza e arroganza. Questa è la Stalingrado della UE.

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