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30 settembre 2008

La fine del secolo americano

Henry Paulson ha presentato un piano di 700 miliardi di $ per salvare il sistema bancario americano, chiedendo ai G7 di adottare un’iniziativa analoga a livello mondiale. Dominique Strauss-Khan, ha rettificato l’entità del buco imputabile ai subprime - sarebbero 1.300 miliardi di $ - ed ha chiesto la collaborazione dei ministri delle finanze e dei governatori delle banche centrali di tutto il mondo per ridisegnare l’architettura del sistema finanziario internazionale.

Nel mese di febbraio il Fondo Monetario Internazionale (FMI) stimava a 1.100 miliardi di $ le perdite del settore finanziario dovute alla crisi dei mutui subprime americani e prevedeva un brusco rallentamento dell’economia globale. Il suo direttore generale, Dominique Strauss-Khan, promise anche di approfondire, con uno studio appropriato, l’impatto sistemico del rialzo dei prezzi delle materie prime, in particolare del petrolio. Nel mese di giugno, in seguito ad un’esplicita richiesta del G8 di Osaka, ribadì il suo impegno a relazionare in autunno. La richiesta del G8 non piacque al segretario di Stato americano Hank Paulson, che accusò i ministri di Francia e Italia, fautori dell’iniziativa, di non conoscere il reale funzionamento dei mercati e di parlare troppo facilmente di speculazione. A tranquillizzarlo bastò l’estrema genericità dell’impegno preso da Dominique Strauss-Khan. Oggi, dopo il fallimento della Lehman Brothers, i due compari si ritrovano al capezzale dell’economia globale, cercando di tutelare gli interessi dell’oligarchia finanziaria sulla pelle dei popoli.

Henry Paulson ha presentato un piano di 700 miliardi di $ per salvare il sistema bancario americano, chiedendo ai G7 di adottare un’iniziativa analoga a livello mondiale. Dominique Strauss-Khan, ha rettificato l’entità del buco imputabile ai subprime - sarebbero 1.300 miliardi di $ - ed ha chiesto la collaborazione dei ministri delle finanze e dei governatori delle banche centrali di tutto il mondo per ridisegnare l’architettura del sistema finanziario internazionale. Sono passati tanti anni da quando tre immigrati ebrei di origine tedesca – i fratelli Henry, Immanuel e Mayer Lehman – costituirono a Montgomery (Alabama) la Lehman Brothers (1850). Non era ancora una banca, ma un negozio di tessuti. All’origine di ogni grande fortuna, c’è sempre un grande crimine. Gli economisti la chiamano accumulazione originaria.
La geniale intuizione dei fratelli Lehman fu quella di sfruttare l’economia schiavista degli Stati del sud facendosi pagare in cotone grezzo, che rivendevano al nord tramite la loro filiale di New York. Durante la guerra civile (1861-65), i fratelli Lehman erano schierati su entrambi i fronti, avendo una sede in Alabama ed una a Manhattan. Finita la guerra, lucrando sul finanziamento della ricostruzione, ampliarono i loro interessi al mercato del caffé, altra materia prima coltivata con l’impiego di schiavi africani. Infine entrarono nel business delle ferrovie e della consulenza finanziaria.

Il salto di qualità, per la famiglia Lehman, avvenne grazie all’alleanza con Goldman Sachs (1906). Entrarono in tutti i settori dell’economia americana, sopravvissero alla crisi del 1929, beneficiarono della seconda guerra mondiale, parteciparono alla grande espansione delle multinazionali americane nel dopoguerra. Negli anni in cui il mondo affrontava le crisi determinate dall’aumento del prezzo del petrolio, la Lehman Brothers raggiunse il suo apogeo, grazie alla fusione con due colossi della finanza americana: Kuhn Loeb (1975) ed American Express (1984). Il quartiere generale era a Manhattan, dove occupava tre piani della torre nord nel World Trade Center. Quel fatidico 11 settembre 2001, tra le 2.974 vittime dell’attentato terroristico, ci fu anche un suo dipendente. Una sola persona, contro le 295 vittime della Cantor Fitzgerald e le 175 della Aon Corporation, altre società che avevano sede nello stesso edificio. Pare che quel giorno, per pura casualità, molti manager fossero assenti. Quello della Lehman Brothers non è soltanto il fallimento di una prestigiosa banca globale, specializzata in finanza creativa.

È il crollo definitivo e irreversibile dell’american dream, un sogno diventato incubo. Quanto sta accadendo non è una crisi come le altre, ma è la fine di un’epoca, la fine del secolo americano. In poco più di cento anni, una colonia europea è divenuta potenza mondiale. Ha vinto due guerre, ha dominato il mondo, ha sconfitto il suo apparente antagonista, continua a minacciare nemici reali e immaginari con il suo apparato militare. È servita da modello per la società multirazziale, da banca centrale per l’economia globale, da quartiere generale della strategia sionista. Ha alimentato speranze ed illusioni, ma ormai è un sistema in frantumi, un dead man walking in attesa del colpo di grazia. Il fallimento della Lehman Brothers, con tutto quello che sta accadendo, può essere paragonato al crollo del muro di Berlino (1989), che anticipò di qualche anno lo scioglimento dell’URSS (1991) per implosione della sua economia. Questo spiega la preoccupazione dell’oligarchia, non tanto per le risorse finanziarie bruciate in questa ed altre crisi, quanto i suoi riflessi sistemici.

Non è in gioco l’economia globale, termine usato per indicare un progetto più che una realtà, ma la sopravvivenza degli apparati mondialisti come sistema di potere capace di gestire la crisi. Le soluzioni proposte, anche se verranno attuate, potranno solo ritardare il grande crac. Vediamole in sintesi, partendo dalle ragioni del crollo. Senza indagare sulle deficienze strutturali del sistema capitalista, accenniamo alla causa scatenante della crisi in atto. Si chiama finanza creativa. Consiste nel prestare denaro spalmando i rischi su una miriade di titoli complessi immessi sul mercato mobiliare. Il fine è lucrare interesse, sia sui mutui che sulla negoziazione dei titoli. Usura che genera usura, come in tutte le bolle speculative che sfociano in crac. Questa volta l’ondata malefica è partita dal settore immobiliare. Per facilitare l’acquisto di case, le banche offrivano mutui fino al 100% del valore dell’immobile. I titoli rappresentativi dei mutui venivano impacchettati, insieme ad altri titoli, in obbligazioni vendute sul mercato, con due vantaggi per le banche: trasferire ad altri operatori il rischio d’insolvenza dei propri clienti e rientrare subito del denaro prestato per erogare altri prestiti. Questo gioco sporco non poteva durare a lungo. Nell’estate 2007 il mercato si è accorto che molti mutuatari non avrebbero potuto restituire i soldi ricevuti, facendo crollare, non solo le obbligazioni che contenevano mutui inesigibili, ma anche altri titoli legati a valori immobiliari. Il capro espiatorio sono state le agenzie di rating, accusate di aver minimizzato il potenziale problema, ma ormai la finanza creativa era stata smascherata.

L’idea di spalmare il rischio trasferendolo ad altri, non riguardava solo i mutui immobiliari. Molti altri impieghi delle banche erano stati impacchettati in obbligazioni vendute sul mercato: prestiti per l’acquisto di auto, carte di credito, finanziamenti di fusioni e acquisizioni. Stavolta sul banco degli imputati è finita anche la Lehman Brothers, accusata di aver cucinato i libri contabili, cioè di aver nascosto 13 miliardi di crediti ormai inesigibili. Di fronte alla prospettiva del fallimento, sono emersi due possibili acquirenti, la Bank of America e la Barclays, i quali chiedevano al governo americano di sostenere la transazione con fondi federali, come aveva fatto con altre banche ed assicurazioni invischiate nel losco affare dei mutui subprime. Ci riferiamo a Fannie Mae e Freddie Mac, salvate con un piano di 200 miliardi di $, e all’American International Group (Aig), benficiaria di altri 85 miliardi di $. Ma il governo si è rifiutato, la Barclays ha ritirato la sua offerta e Bank of America ha preferito comprare Merrill Lynch. Così, alla prestigiosa Lehman Brothers, non è rimasta altra scelta che dichiarare il fallimento, scatenando il panico sui mercati finanziari. Passiamo ora ad analizzare le soluzioni prospettate. Il presidente della Federal Reserve, l’economista Ben Bernanke, ha studiato molto bene la crisi del 1929. La sua teoria è nota: per evitare una nuova grande depressione, la banca centrale può anche gettare pacchi di banconote con un elicottero. In sostanza, è quanto si vuole che avvenga.

Dieci grandi banche (Bank of America, Citibank, Barclays, Credit Suisse, Ubs, JpMorgan, Merrill Lynch, Goldman Sachs, Deutsche Bank, Morgan Stanley) hanno costituito un fondo di 70 miliardi di dollari per assicurarsi liquidità aggiuntiva. Il Tesoro americano ha varato il piano Paulson per 700 miliardi di dollari, al fine di acquistare i titoli senza valore di mercato dalle banche in difficoltà. Questi titoli saranno gestiti dal Tesoro stesso in piena autonomia, cioè assumendo gestori di fondi ed intermediari specializzati, ma soprattutto nella più totale impunità, cioè al riparo da eventuali azioni legali di risparmiatori e contribuenti. È dovuto intervenire George Bush per garantire il sostegno bipartisan al piano. In questa difficile congiuntura, come è avvenuto per tutto il secolo americano, gli USA hanno dapprima esportato la crisi e poi chiesto il sostegno degli altri Paesi attraverso le istituzioni finanziarie internazionali, costituite per sostenere i loro interessi imperialisti e trasformate progressivamente in agenti dell’oligarchia mondialista. Con queste premesse, è nata l’iniziativa di Dominique Strauss- Khan. In vista della prossima riunione del Fondo Monetario Internazionale, che si terrà a Washington nel mese di ottobre, ha chiesto agli Stati di fare, al loro interno ed a livello globale, ciò che stanno facendo gli USA.

L’intervento a breve termine dovrebbe essere così articolato: iniezione di nuova liquidità, acquisizione degli attivi inesigibili, apporto di capitali a vantaggio delle banche in crisi. Un’agenzia intergovernativa dovrebbe acquisire i crediti inesigibili e detenerli fino a quando non giungono a scadenza e possono essere rivenduti senza rischi. La soluzione proposta, da tutte queste persone di grande intelligenza, è fin troppo banale: ricapitalizzare il sistema finanziario col sostegno pubblico, sia a livello statale che mondiale. Lo Stato, questo vecchio arnese messo ai margini dell’economia dai profeti del liberismo, dovrebbe ora intervenire per salvare i profitti dei banchieri. La cooperazione internazionale, rimpiazzata dalla global governance dei poteri occulti, viene ora invocata per evitare il peggio. Resta da chiedersi perché il resto del mondo dovrebbe salvare dal crollo la civiltà americana. Alcuni invocano un vago senso di responsabilità globale, quello funzionale all’attuazione del progetto mondialista. Altri l’interdipendenza economica, quella imposta con la guerra permanente. Forse un nuovo conflitto mondiale, un attacco alla Russia o all’Iran, darebbe fiato all’economia USA, come avvenne nel 1939, a dieci anni dal crollo storico di Wall Street. La teoria tardoimperialista dello scontro di civiltà col mondo arabo e le operazioni militari contro presunte centrali del terrorismo islamico sono servite a poco. Ma il secolo americano è finito. L’oligarchia è seriamente in crisi. Al crollo simbolico della Lehman Brothers seguirà l’implosione di tutto il sistema. Il vero problema, nella teoria e nella prassi rivoluzionaria, non è stabilire tra quanti anni ciò avverrà e quanta moneta sarà bruciata nel prossimo grande crac, ma è capire quanti e quali uomini resteranno in piedi tra le rovine dell’utopia mercatista per costruire un vero socialismo.

Raffaele Ragni
Rinascita Campania

29 settembre 2008

I nuovi muri di Berlino


Nella classifica 2008 di Transparency International l'Italia si troverebbe al 55° posto nel mondo per la corruzione nel settore pubblico, scendendo di 14 posizioni dal 2007 grazie a una maggiore diffusione "dell'abuso di pubblici uffici per il guadagno privato". E' quanto riporta il Blog di Beppe Grillo, in linea con la sua propaganda politica vestita da "controinformazione" indipendente. Tuttavia bisogna chiedersi chi è Transparency International, e cosa si nasconde dietro la sua lotta contro la corruzione.

Il Blog di Beppe Grillo riporta in prima pagina che secondo Transparency International, l’Italia si troverebbe al 55simo posto nella classifica della lotta alla corruzione e della correttezza delle procedure politiche. Tuttavia, quella che viene definita un’istituzione internazionale nella definizione dello stato di corruzione, non rappresenta altro che la spada di Damocle delle entità economiche sovranazionali sulle economie degli Stati, per decidere liberalizzazione e privatizzazioni. Transparency International è stata creata da Robert Strange McNamara, Segretario alla Difesa dei Presidenti John Fitzgerald Kennedy e Lyndon B. Johnson, collaborando alla decisione del lancio della bomba atomica in Giappone e della guerra che ha devastato il Vietnam, ricostruendo poi nel tempo l’immagine di grande statista con la creazione della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale. Proprio le "illustri origini" di Transparency, rappresentano la premessa essenziale della lunga carriera di questa organizzazione internazionale, divenuta poi portavoce della Banca Mondiale, all’interno delle politiche di privatizzazione, delle riforme istituzionale e costituzionali, e facendo così della sua lotta per la "trasparenza" un ricatto perenne per politici e funzionari.

Le economie in via di sviluppo, come quelle dell’Europa sud-orientale, rappresentano i prototipi sperimentali per eccellenza di Transparency, considerando che ha collaborato in tutto e per tutto alla loro "democratizzazione" e, così, alla colonizzazione da parte delle multinazionali. Nei Balcani, per esempio, hanno portato a termine dei veri capolavori, cadendo spesso nel ridicolo e nell’assurdo. Quando in Albania sostennero che il Governo era stato corrotto nella gestione del sistema di distribuzione del gas, furono derisi da tutti perché non esiste nel Paese una rete energetica di questo tipo. Da Banja Luka, invece, sono scappati, dopo che un quotidiano locale ha reso noto che i loro funzionari - paladini della giustizia contro la corruzione - avevano corrotto alcuni funzionari per poter realizzare le cosiddette riforme. Rappresentano dunque i figli del marcio dell’economia capitalista occidentale. Si nascondono dietro le NGO, dietro le campagne mediatiche di grande effetto, mentre firmano nei consigli di amministrazione la condanna a morte di migliaia di persone.

Ma dove era Transparency International quando in America Latina si è deciso di privatizzare l’acqua scatenando miseria e guerriglie, oppure negli Stati Uniti sono state fatte cartolarizzazioni, sono stati emessi titoli e derivati non garantiti, sono stati concessi prestiti per il125% del valore delle garanzie a soggetti ad elevato rischio di insolvenza? Magari erano nell’Est europeo, a fare approvare l’ennesima privatizzazione a colpi di scandali e di corruzione, a scatenare tangentopoli e retate all’interno delle società possedute dallo Stato, per garantire così il buon fine dell’ultimo tender o dell’ultimo appalto. Così, mentre le Banche degli Stati Uniti emettevano carta straccia per "far girare l’economia", le società fallivano o delocalizzavano, la disoccupazione e la stagnazione economica dilagava, e contemporaneamente la Comunità Europea dava fondi per l’integrazione. Una macchina oliata alla perfezione, un giostra che gira all’impazzata.

Bisogna inoltre chiedersi quali sono le fonti delle loro indagini, in quanto, non essendo un’Istituzione creata da Stati, rappresenta solo un contractor che elabora dati, al pari di un’agenzia di informazione privata. Ma soprattutto, è necessario precisare cosa si intende dire per "corruzione", considerando che è un concetto mutevole e variabile, che cambia a seconda delle caratteristiche storiche e sociali di ogni Stato. Le semplici tangenti, si sono trasformate, all’interno di democrazie più evolute nelle cosiddette lobbies legali, che sponsorizzano i partiti; ragion per cui non si può dare alla "corruzione" una definizione oggettiva. Negli Stati Uniti un funzionario "corrotto" ha il potere di uccidere migliaia di persone, nei Balcani, così come in Italia, può favorire certi soggetti invece che altri, al pari di una sponsorizzazione delle lobbies americane. Esiste così un altro tipo di corruzione, più sofisticata, dietro la quale vi sono società di consulenza che pianificano manovre finanziarie e politiche economiche, in relazione agli interessi di determinate città. Per tale motivo, la crisi finanziaria che stiamo vivendo è dovuta in parte ad un altro tipo di realtà, che deriva dalla struttura stessa del potere, scatenando un effetto domino infinito.

Se negli anni '90 le grandi società di speculazione hanno costruito la loro ricchezza truccando i bilanci, accreditando titoli senza alcuna copertura reale ed eludendo le leggi degli Stati, dopo l'11 settembre è stato instaurato un nuovo ordine mondiale che ha fatto della monetica (moneta elettronica) il suo "cavallo di battaglia". Le nuove norme per gli scambi economici hanno fatto saltare tutti i fusibili - banche d’affari minori, manager e broker, fondi di investimento - danneggiando piccoli investitori, cittadini e imprese di piccole e medie dimensioni, nonchè amministrazioni locali e utilities pubbliche. Tuttavia, la monetica fa parte del nuovo sistema economico telematizzato ed informatizzato che scandisce non solo l’economia, ma anche la nostra società. Pian piano, sono stati costruiti i nuovi muri di Berlino, ossia delle frontiere informatiche che si sono alzate, senza nessun referendum popolare: si parla di democrazia diretta, di potere orizzontale, ma anche di lotta alla corruzione, di "parlamenti puliti", di "governi ombra".

Virtualizzazione, usura e disumanizzazione, sono la peste di questo millennio, in cui, in assenza di un codice etico legittimato dagli Stati, ognuno di noi può scomparire dinanzi alla "e-justice". I cancellati, gli invisibili, i doppi Nick, i nomi sintetici, sono i nuovi venditori di anime. Oggi esistono giù i nuovi Stati all’interno di internet, esistono popoli, come i "palktalkiani", i "Grillini", gli "indipendenti". E pensare che molti uomini, prima di loro, si sono battuti per il diritto all'internet, che doveva rappresentare la libertà di informazione, dove chiunque poteva scrivere, mentre oggi esistono solo pochissime realtà, come Google e Youtube. Questa è la democrazia e questa è la rete, per tutto ciò andiamo a votare, e ci riuniamo per gridare. Nella continua lotta tra il materiale e l’immateriale, la nostra economia e il nostro concetto economico sono stati cambiati. Il mercato immobiliare fallisce perchè esistono uffici virtuali, il sistema finanziario è in crisi perché esistono piattaforme sovranazionali che accumulano transazioni, la politica è in macerie perché sono cambiati i sistemi per fare propaganda e attirare elettori. Avremo le unità lavorative, le unità intellettive, e il sistema bancario sparirà, esisterà solo un’immensa banca dati, un essere immateriale, dove per trasportare immaterialmente del denaro da una parte e dall’altra devi pagare, perchè devi passare i muri invisibili di Berlino.

26 settembre 2008

Investimenti italiani a rischio in Montenegro


Rinascita Balcanica segue da tempo la vicenda della Gatti S.p.a. in Montenegro colpita da uno sciopero che si protrae da oltre un anno senza alcun spiraglio per la sua cessazione, nè interventi da parte delle autorità italiane in territorio montenegrino. La fonderia italiana si trova ora in difficoltà avendo subito gravi danni per la cessazione dei processi produttivi, e il venir meno delle garanzie del Governo montenegrino nonostante sia stato rispettato il contratto. Per tale motivo la Gatti S.p.A. sta ora predisponendo gli atti necessari per ricorrere alla Corte Arbitrale Internazionale presso la Camera di Commercio Internazionale di Parigi per ottenere un giusto risarcimento dalla controparte.

Nonostante Unione Europea, Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale abbiano definito il Montenegro un "Paese balcanico" da prendere come esempio per il suo sviluppo e la sua attrattività dei capitali, assistiamo ancora oggi ad eventi sconcertanti, che lasciano senza parole. Mentre a Budva ancora vi sono sparatorie tra bande montenegrine e mafie russe, le banche e le finanziarie accumulano e lavano denaro per gli interessi di forti gruppi di potere, e gli investimenti industriali si trasformano nell’ennesima occasione per sfruttare la situazione a proprio vantaggio. Ad attraversare un momento particolarmente difficile nell’immobilismo delle autorità locali, è la fonderia Livnica del complesso siderurgico del Montenegro di Niksic gestita dalla società italiana Gatti Spa. Da circa sei mesi la produzione della fonderia Livnica è bloccata da uno sciopero ad oltranza dei lavoratori, che protestano contro il mancato rispetto del contratto da parte della società italiana. Le trattative tra i dirigenti della società e i sindacati non hanno aperto alcun spiraglio sulla risoluzione della controversia, bensì spesso sono state motivo di disordine pubblico e di intolleranza estrema, che comunque non hanno spinto le forze dell’ordine ad intervenire.

Da parte sua, la Gatti S.p.a. non è rimasta certo a guardare che, una fonderia come quella di Niksic, venisse danneggiata da una semplice controversia sindacale. Infatti, il 19 Settembre 2008, su mandato del Consiglio di Amministrazione della società Gatti S.p.A., l’avvocato Marco Ascoli ha informato le autorità del Montenegro che vengono perpetuati dei continui atti di intimidazione e delinquenziali compiuti dai dirigenti della società Zeljezara contro la società Livnica a.d., di cui Gatti S.p.A. detiene il 98% delle azioni. Destinatari della nota informativa sono stati Radomir Vukcevic, Presidente del Consiglio Direttori in Zeljezara, Mitar Misovic, Direttore esecutivo in Zeljezara, Branko Vujovic dell'Agenzia per la ristrutturazione e investimenti esteri del Governo del Montenegro, Branimir Gvozdenovic , Ministro per lo sviluppo economico del Governo del Montenegro, Anka Stojkovic, Capo ispettore di lavoro nel Ministero della salute, lavoro e previdenza sociale, nonché l’ambasciatore italiano in Montenegro, Gabriele Meucci, e l’avvocato Nikola Martinovic. La Gatti infatti aveva denunciato presso le autorità del Montenegro che le guardie della Zeljezara, che non hanno alcun potere e competenza nei confronti della Livinca, hanno bloccato l’uscita di camion che trasportavano materiale della fonderia, senza nessun ordine o base legale. Un atto che è stato definito come "illegittimo e incomprensibile per il mondo civilizzato", in quanto paralizza il normale funzionamento della produzione senza che la Zeljezara ne abbia il potere.

Dopo aver informato le autorità competenti, la Gatti "in virtù di quanto previsto dall’articolo n° 16 - Risoluzione delle controversie del contratto di compravendita di Livnica a.d. stipulato fra Gatti S.p.A. e Zeljezara - ossia che “le eventuali controversie che possono derivare in connessione con il presente Contratto e che non possono essere risolte con accordo reciproco tra le parti contraenti entro 30 giorni dal giorno in cui la controversia si è presentata, saranno trasferite davanti alla Corte arbitrale internazionale presso la Camera di Commercio Internazionale di Parigi, Francia, dove sarà applicata la legislazione UE. La sentenza della Corte arbitrale sarà definitiva e vincolante per entrambe le parti” - annuncia che si stanno predisponendo gli atti necessari per ricorrere alla Corte Arbitrale Internazionale presso la Camera di Commercio Internazionale di Parigi, per ottenere una condanna a carico di Zeljezara, con conseguente onere risarcitorio, per i danni che le attività illecite ed illegittime da quest’ultima compiuti stanno arrecando a Gatti S.p.A.
Una contromisura che ricorda molto quella della Central-European Aluminum Company (CEAC), del miliardario russo Oleg Deripaska, proprietaria della Kombinat Aluminijuma, la quale ha querelato il Governo di Podgorica chiedendo un risarcimento di 300 milioni di euro, dopo che un’esamina dei bilanci, ha rivelato delle perdite inaspettate. La CEAC accusa infatti il Montenegro di aver occultato dati importanti per stabilire il valore della Kombinat durante le negoziazioni per l'acquisto della fabbrica. Anche in questo caso il Governo del Montenegro dovrà dare delle spiegazioni sul modo in cui i contratti vengono manipolati senza garantire trasparenza, prima o dopo le trattative.

La cosa più assurda è che adesso si è giunti al punto che la controparte montenegrina, l'amministrazione della Zeljezara, chiederà la risoluzione unilaterale del contratto di vendita presso il Consiglio per le Privatizzazioni del Montenegro, ritenendo questo "un atto legittimo visto che la società Gatti non ha rispettato gli impegni presi". La situazione che si è venuta a creare è alquanto surreale, perché degli atti assolutamente inspiegabili compiuti vengono ribaltati e fatti passare per reazioni legittime, fino a sfociare nella decisione "unilaterale" di sciogliere un contratto garantito da procedure internazionali per gli investimenti diretti esteri. Una sorta di intimidazione che giunge in seguito all’istigazione dei lavoratori e spesso la disinformazione dei media locali.

È evidente che vi sono alcune pressioni contro alcune aziende, che sino ad ieri erano accolte come investitori, ed oggi vengono costrette ad abbandonare gli investimenti con un atto unilaterale. Tra l’altro, la parola "unilateralmente" è molto diffusa nei Balcani, soprattutto dopo le vicende del Kosovo, quando non si hanno altre scappatoie. D’altro canto, se un Governo permette ai suoi cittadini di portare avanti uno sciopero, senza creare delle condizioni di dialogo è perchè vuole platealmente cacciare alcuni soggetti per favorirne altri. Lo stesso Primo Ministro chiede agli investitori esteri di investire in Montenegro, esponendosi in prima persona, ma in altre situazioni non muove neanche un dito per la salvaguardia di una impresa battente bandiera italiana.
La Gatti ora aspetta un qualche segnale da parte delle autorità italiane che dovranno prendere una posizione su questo anomalo caso, in cui le rivendicazioni sindacali sono orchestrate da conflitti di interesse, come lo stesso settimanale Monitor ha spesso denunciato. Le implicazioni di come verrà risolto questo caso sono molto importanti e delicate, in quanto avranno un certo impatto anche sui futuri investimento di altre imprese italiane ed estere nei Balcani. Con quale spirito l’Italia potrà accogliere Milo Djukanovic a Roma per parlare di cooperazione ed investimenti, se il suo Governo non si degna di creare neanche una tavola rotonda?

Rinascita Balcanica

25 settembre 2008

Che Paese è il nostro?

La sera del 18 settembre scorso sul litorale domizio sei giovani africani, Samuel, Awanga, Yulius, Eric, Cristopher e Alex, sono caduti sotto i colpi di un gruppo di fuoco della camorra. 130 colpi colpi tra kalashnikov e pistole di grosso calibro hanno portato alla ribalta questo territorio, in provincia di Caserta, dove si respira un drammatico disagio sociale.

Sono più di undicimila, tra regolari e clandestini, gli extracomunitari africani che risiedono nella zona ed enormi sono i problemi di convivenza con gli abitanti del luogo che hanno visto nel tempo, soprattutto per i grossi interessi della malavita organizzata, una zona a vocazione turistica trasformarsi nel regno del traffico di stupefacenti, della prostituzione, del lavoro nero. Un piccolo inferno dove il termine “legalità” è sconosciuto, una zona franca dell’illecito di ogni tipo. La strage nel comune di Castelvolturno è senz’altro un avvenimento gravissimo che trova le sue ragioni profonde nelle problematiche di quel territorio, ma, più in generale, risulta essere anche lo specchio di una situazione insostenibile che dovrebbe far riflettere su quanto, da troppi anni, avviene impunemente nella nazione considerata dai cultori della giurisprudenza la “patria del diritto”. Quello che fu il Belpaese, si è trasformato in una sorta di terra di nessuno dove, grazie ai benefici di una certa mentalità lassista, di una quantità enorme di leggi e leggine a cui si sommano sentenze d’ogni tipo, da quelle della Corte di Cassazione a quelle del Tar, ed alla cultura del condono indiscriminato, tutti si sentono autorizzati a fare quello che vogliono.

Che Paese è il nostro? Pretendiamo di essere esempio per gli altri ed in casa nostra non riusciamo a contrastare la mafia, la criminalità organizzata che spadroneggia nel territorio nazionale, a dotarci di leggi e procedure capaci di funzionare da deterrente efficace per tutta una serie di delitti diffusissimi e odiosi, come il racket, l’usura, lo stupro, lo scippo, la truffa ai danni di vecchi soli in casa, il raggiro di consumatori e risparmiatori su larga scala. Un paese dove la complicità tra certe organizzazioni malavitose e alcune frange della pubblica amministrazione è, quanto meno, tollerata ed i personaggi che si macchiano di questa infamante accusa continuano imperterriti a conservare il proprio posto al sole, dove anche smaltire i rifiuti da noi stessi prodotti si trasforma in una guerra epocale. L’unica cosa che si riesce ad escogitare è prendere atto delle varie emergenze ed inviare, come nel caso di Castelvolturno, l’esercito per controllare il territorio. Tra non molto chiederemo anche l’intervento dei caschi blu dell’Onu per garantirci la pace! No, non è così che riusciremo ad uscire dal tunnel buio in cui ci siamo cacciati, non è plaudendo alle scellerate decisioni di questo e di quel governo, ai provvedimenti tampone che, come da prassi consolidata, gestiscono ma non risolvono i problemi, che riusciremo a riscattare la nostra dignità di popolo.

Nando de Angelis
Rinascita Campania

24 settembre 2008

Uno spettacolo fratricida


Il Ministro degli Interni Maroni presenta in Senato la sua relazione sui fatti avvenuti nel Casertano che fa anche da cornice al decreto legge sulle nuove misure urgenti volte a contrastare la criminalità organizzata e l’immigrazione clandestina. Un contingente di 500 militari sarà inviato nel casertano e nelle aree dove è più necessario assicurare un maggiore controllo da parte dello Stato.

È stata una vera dichiarazione di guerra quella del Ministro Maroni contro gli "atti di terrorismo" e la "guerra civile" scatenatasi nella provincia di Caserta, dopo le violente ritorsioni del clan dei Casalesi. Una requisitoria che ricorda le spedizioni punitive dello Stato durante gli anni di piombo, con il tocco della propaganda all’americana, fredda e distaccata. Il Governo decide di inviare 500 militari per «individuare gli autori della strage, catturare i latitanti ed espellere i clandestini», e magari eliminare la disoccupazione, il degrado sociale e il malessere economico ereditato da anni di silenzio e indifferenza. «C'è una guerra civile che la camorra ha dichiarato allo Stato cui lo Stato deve rispondere con fermezza, riappropriandosi del territorio» , afferma Maroni spiegando - come si confà ad un vero esperto meridionalista - che gli omicidi di Castelvolturno «sono maturati in un contesto socio-ambientale caratterizzato dall'influenza del clan dei Casalesi… clan che, dall'elevata capacità collusiva nel tessuto economico ed istituzionale, gestisce il narcotraffico, il traffico di esseri umani, reati contro il patrimonio , estorsioni, contrabbando».

Il Ministro poi è molto preoccupato del fatto che nella stessa zona vi è una forte presenza di immigrati, a volte superiore alla popolazione residente, che sembra dare dei problemi alla criminalità locale. Dalle sue parole sembra turbato più del fatto che i Casalesi si ribellano alla criminalità straniera "che nel passato era sembrata poter coesistere pacificamente con i clan locali", piuttosto che si sta scatenando una crisi sociale nel cuore del Sud Italia che non ha confronti. Infatti, fin quando i camorristi si ammazzavano tra di loro e al massimo uccidevano la popolazione locale durante i loro regolamenti di conti, poteva sembrare anche normale, d’altronde siamo sempre a "Napoli" non ci dimentichiamo, lì sono abituati, vivono da sempre in questa situazione. Comunque il Viminale invierà per l’ennesima volta il suo esercito in Campania per fare un po’ di pulizia, e poi tornare a Roma vittoriosi, con nuovo materiale da propagandare sulle gesta del Governo italiano, e in particolare dei Ministri della Lega. L’inutile convinzione che un esercito possa risolvere un problema sociale radicato ormai nella politica e nell’economia è ridicola, almeno quanto sentir parlare dei funzionari che non hanno assolutamente idea della vera realtà sociale delle province di Napoli o di Caserta. D’altronde non potevamo aspettarci qualcosa di diverso dai politici affaristi di Roma o Milano, imbevuti della disinformazione dei media che viaggiano sulla scia dei luoghi comuni e dei "bollettini di guerra".

I media hanno infatti contribuito a creare questa immagine di "far west"senza speranza, fatto di delinquenti di strada che lottano tra di loro per il pizzo, lo spaccio o lo sfruttamento, e che dunque possono essere fermati anche un semplice presidio. Già "Gomorra" (nelle foto) ha cercato di spiegare nella maniera più verosimile possibile cosa accade nelle organizzazioni criminali di stampo camorristico, e anche questo tentativo è stato neutralizzato dalla manipolazione dei grandi media e delle grandi case editoriali. Non sarebbe stato possibile portare la Camorra sui grandi schermi, dinanzi alla vasta opinione pubblica, senza riadattare con alcuni accorgimenti la sceneggiatura e i contesti. Tutto è divenuto scenico, di grande impressione, ma per quanto fosse provocatorio e scioccante è divenuto nelle loro mani riduttivo e miope, l’ennesimo ritratto dell’Italia disastrata che piace tanto al New York Times o agli snob burocrati europei, e che comunque offende l’umanità dei cittadini campani. A Gomorra va il merito di aver aperto una ferita cicatrizzata dal perbenismo e dal "laissez faire" dello Stato centralizzato, lasciando però che tutti i vermi si insinuassero dentro per soddisfare i propri interessi.

Da una parte lo Stato che ha guadagnato un ottimo alibi per il suo assenteismo e la sua politica corrotta, fatta di funzionari collusi e amministratori complici dei crimini più meschini, nonché di politiche inefficaci contro l’economia sommersa e la disoccupazione, contro il degrado edilizio e delle periferie. Dall’altra le società e le imprese della Camorra che non sono state certo danneggiate dalla caccia alle streghe, e hanno continuato a concludere il loro affari leciti ed illeciti. E infine gli stessi "Casalesi" e rivali dei "Casalesi" che, dopo la destabilizzazione dei vertici, hanno avuto l’occasione di cambiare i capi e le gerarchie che controllano il territorio, seguendo così la legge della mafie che dura ormai da anni. Il cerchio si chiude di nuovo, proprio perché il sistema economico-politico è fatto in maniera tale da non permettere delle anomalie "incontrollabili". La denuncia dei responsabili dei crimini è un atto di profondo coraggio, che non possiamo non stimare, tuttavia il tempo degli eroi è finito, ben presto vengono neutralizzati ed isolati dalle stesse persone che li avevano acclamati e applauditi, strumentalizzando proprio la loro buona fede e la loro vanità. L’egoismo umano non ha limiti e ha diverse forme, tutte ben note alle società di comunicazione e agli sponsor che decidono di portare avanti una determinata "causa". Il tutto si trasforma in un’operazione economica studiata a tavolino, che deve avere un bilancio dei costi e dei ricavi certi, senza sorprese o colpi di scena.

Tutti sapevano che Gomorra avrebbe scalato le grandi classifiche internazionali, che avrebbe ispirato un film che a sua volta avrebbe vinto prestigiosi premi. Nessuno però ha pensato che fosse l’exploit della fine di un’epoca, la miccia di una guerriglia intestina senza fine, il casus belli della criminalizzazione del Sud e l’innesco di una "pulizia criminale" ben selezionata. Arrestare i criminali, glorificare gli eroi, destabilizzare la popolazione e ristabilire un nuovo ordine. Ecco le fasi di ogni "guerra terroristica" moderna, combattuta da media, politicanti e burattini, ma comunque sanguinosa e inarrestabile. Abbiamo esportato democrazia, ma continuiamo a trucidare i nostri cittadini, colpendo sempre le classi più deboli, come i disoccupati, i disagiati e adesso anche gli extracomunitari, ultimo anello di questa catena fratricida. Non è questo il nostro Stato, né il nuovo ordine che i napoletani o i casertani hanno chiesto. Questo è tradimento, un semplice atto per dimostrare di aver fatto comunque qualcosa, continuando a riscuotere tasse, a privatizzare porti e stabilimenti, ad accogliere speculatori e mercanti di uomini.

23 settembre 2008

Scandalo rifiuti e “Sindrome di BISB” in Campania


Nel libro Ecoballe (giugno 2008, Aliberti Editore), Paolo Rabitti ricorda che “il solo trattamento delle circa ottomila tonnellate di rifiuti prodotti in un solo giorno dalla Regione costa quasi tre milioni e mezzo di euro” e che la causa dell’emergenza rifiuti in Campania “secondo giornalisti poco informati, amministratori e pseudotecnici, il disastro sarebbe individuato nella difficoltà di costruire nuove discariche e nella mancata entrata in funzione dell’inceneritore di Acerra, a causa di un’epidemia della sindrome di NIMBY (acronimo che in italiano vuol dire “non nel mio giardino”) che avrebbe colpito l’intera popolazione della Campania, peraltro incapace di differenziare i rifiuti e insensibile al problema”.
Rabitti evidenzia che tale versione delle cause del disastro non corrisponde a verità e serve a coprire il lucroso, facile e parassitario sistema attivato con i poteri speciali. Su “Il Manifesto” del 2 febbraio 2008 è stato pubblicato un mio articolo dal titolo “Scandalo rifiuti: tra i cittadini campani dilaga la sindrome di BISB” nel quale evidenziavo come “Vari autorevoli personaggi che hanno avuto un ruolo nel determinare e gestire lo scandalo rifiuti continuano a lanciare appelli ai cittadini campani invitandoli a liberarsi dalla deleteria “Sindrome di NIMBY”, nota sigla che tradotta vuol dire “Non (la discarica) nel mio giardino”, e a collaborare per uscire dalla scandalosa emergenza rifiuti accettando il piano De Gennaro”.

In realtà il piano rifiuti di De Gennaro, come poi è stato verificato, appariva un tappabuchi e non faceva altro che istituzionalizzare definitivamente lo stato di “emergenza-scandalo rifiuti” condannando l’intera Campania ad una pericolosa recessione socio-economico-ambientale. Facevo presente che i cittadini della Campania non erano e non sono affetti dalla sindrome di NIMBY bensì da una nuova sindrome che dilagava irresistibilmente: si trattava della “Sindrome di BISB” che vuol dire Basta (B) con gli Incapaci (I), le Sanguisughe (S) e i Bugiardi (B). Di fatto, la Struttura Commissariale si era rivelata una efficace sanguisuga di risorse finanziarie pubbliche provocando un dannoso e grave inquinamento ambientale nelle aree urbane (nelle quali i rifiuti giacevano per lunghi periodi e spesso venivano incendiati nelle strade) e nelle aree circostanti le discariche eseguite spesso in siti non idonei determinando inquinamento del suolo e delle acque superficiali e sotterranee (ad esempio a Lo Uttaro vicino a Caserta, a Basso dell’Olmo e poi a Macchia Soprana sul fiume Sele e sulle opere di presa di circa 250 milioni di mc di acqua per l’irrigazione della pianura da Salerno a Paestum).

Le situazioni di inquinamento ambientale, artatamente determinate, hanno diffuso a scala mondiale un’immagine regionale squallida con conseguenti danni economici per le attività turistiche ed agricole e produttive in genere. I cittadini campani sono stati sottoposti per lunghi anni a ripetute situazioni di rischio sanitario e non hanno goduto del diritto alla salute previsto dall’articolo 32 della Costituzione Italiana. Troppe volte rappresentanti di varie istituzioni hanno elargito promesse che non sono state mantenute. Tanto per fare un esempio, sono dovute intervenire personalmente alte cariche dello Stato per garantire che alcune discariche sarebbero state definitivamente chiuse (Parapoti e Difesa Grande); con De Gennaro, Commissario di Governo, in un primo tempo era stata elusa la promessa presidenziale prevedendone la riapertura (Difesa Grande sicuramente, Parapoti come riserva). Da questi e altri elementi traeva origine la nuova “Sindrome di BISB”. I cittadini richiedevano semplicemente che si chiudesse definitivamente lo scandalo rifiuti perché era evidente che i rappresentanti di varie istituzioni sovracomunali, ordinarie e straordinarie, non erano più credibili e vi era la certezza che continuare ad affidare le sorti della Campania a persone dotate di poteri sempre più speciali significava affossare definitivamente nel percolato e nei rifiuti un territorio ricco di risorse umane, storiche, archeologiche, naturali e produttive uniche al mondo e trascinare la regione verso un ulteriore degrado, aggravando pericolosamente la “Sindrome di BISB”.

Le recenti affermazioni di Bertolaso alla “Giornata del Creato” (organizzata dalla CEI a Napoli il 13 settembre c.a.) riferendosi all’articolo apparso su l’Espresso dell’11 settembre 2008 circa l’inquinamento del territorio campano che sarebbe avvenuto grazie alla collusione tra malavita e vari personaggi (funzionari, politici, imprenditori e anche cittadini che hanno garantito la copertura agli illeciti affari) e alla inerte accettazione e disattenzione della popolazione campana, lasciano alquanto perplessi. Infatti bastava leggere i dossier di Legambiente, come ad esempio quello del 1994, per verificare che accuse documentate sono state ripetutamente poste all’attenzione dei rappresentanti delle Istituzioni Pubbliche che devono tutelare l’ambiente anche dagli ecocrimini. Come dice il presidente di Legambiente Campania, è stato proprio lo Stato ad essere assente per troppi anni nelle terre di Biutiful Cauntri. Per Bertolaso (e per chi lo ha mandato) i campani, oltre ad essere sempre sporchi e cattivi, devono essere anche stupidi. Scientificamente ragionando, l’invenzione del Commissariato Straordinario, che si basa sulla imperfezione della legge della Protezione Civile, è finalizzata solo all’uso e abuso di poteri sempre più dittatoriali e alla legalizzazione dell’uso spregiudicato delle finanze pubbliche con modalità non consentite dalle leggi ordinarie per singoli periodi di alcuni mesi, reiterati senza fine; solo gli ingenui, le persone interessate e quella parte dei mass media servile e velinara possono pensare che sia una struttura creata per risolvere radicalmente il problema rifiuti della Campania. Siamo seri e non parliamo più di sindrome di NIMBY. La vera e unica sindrome da esorcizzare è quella di BISB.

Franco Ortolani
Ordinario di Geologia, Università di Napoli Federico II

Le pensioni dei kosovari ingoiate dai mercati internazionali

Il Trust per le Pensioni e i Risparmi in Kosovo (KPST), ente istituzionale creato per la gestione delle pensioni dei kosovari nel 2002 all’interno della ex provincia serba sottoposta ad Amministrazione Controllata da parte dell’Unmik e affidata ad un comitato di fiduciari, comincia a perdere quotazione. Il valore del Fondo è diminuito di 45 milioni di euro solo negli ultimi 6 mesi, pari al 2% del suo valore iniziale.

Il crollo delle borse sui mercati internazionali ha avuto un forte impatto anche sulla stabilità finanziaria nei Balcani, patria di investimenti poco trasparenti e delle piramidi speculative. I suoi mercati finanziari, spesso poco informatizzati e privi di ogni tipo di informazione responsabile per investitori e risparmiatori, sono vespai ideali per broker e "cavalieri di ventura" in cerca di terreno fertile per le proprie speculazioni. In clima di grave incertezza e di forte crisi per i più grandi gruppi di investimento internazionali, si assiste ora ai primi effetti nella regione balcanica, che resta pur sempre un mercato rischioso. In particolare, esaminiamo il caso del Trust per le Pensioni e i Risparmi in Kosovo (KPST), ente istituzionale creato nel 2002 all’interno della ex provincia serba sottoposta ad Amministrazione Controllata da parte dell’Unmik, per cui affidata ad un comitato di fiduciari che a loro volta facevano riferimento ad una banca estera. Al momento, all’indomani dell’indipendenza del Kosovo, tra l’altro i nomi proposti dal Governo per il board del Trust non sono stati ancora approvati al Parlamento, ragion per cui queste fasi di raccolta, di investimento ( o di perdita) dei fondi è avvenuta grazie alla consulenza di qualche organo esterno, probabilmente Banche o società estere. Il consiglio direttivo è composto oggi da 6 membri votanti, tutti nominati dal rappresentante speciale delle Nazioni Unite e con nomina rinnovabile.

Il trust gestisce oltre 290 milioni di euro dei contributi pensionistici dei kosovari, nato infatti come fondo destinato al finanziamento delle pensioni dei cittadini kosovari. E’ stato istituito con il mandato di raccogliere i contributi obbligatori all’interno del Paese di datori di lavoro e dipendenti, con un tasso di contributo minimo per entrambi dal 5% al 15%. Occorre premettere che il Kosovo ha un sistema pensionistico con un fondo finanziato dal bilancio e destinato alle persone con età pari o superiore ai 65 anni di età, indipendentemente dal fatto che essi abbiano contribuito o meno in passato. Il KPST ha ricevuto una prima parte di finanziamenti da 3 milioni di euro opzionali, come garanzia dal budget del Kosovo, nel 2002 per poi divenire autosufficiente nel 2006, coprendo le spese operative dell'1%, interesse richiesto una volta che il fondo raggiunge il regime delle attività. Ha iniziato le operazioni di raccolta con una meticolosa pianificazione sin dall'inizio nel 2002 - dunque molto tempo prima della fondazione del cosiddetto Stato del Kosovo - con l’adesione di 266 mila contribuenti, con 278 milioni di euro in meno di sei anni, e un valore totale attuale di 293 milioni di euro, cresciuto negli anni non certo grazie a degli investimenti "favorevoli" . La crescita si è avuta infatti grazie principalmente ad un aumento del tasso di contribuzione all’interno del Paese di due milioni di euro, con 250000 contribuenti e 45000 datori di lavoro, come riportato da Vershim Hatipi, Vice Direttore del KPST. "Il maggior numero dei contribuenti pensa di trovarsi in un'economia sommersa, ma spetta all'amministrazione fiscale garantire il rispetto del contributo". Per cui visto l'aumento dei contributi, vi è stato un ritorno degli investimenti con una media del 5% ogni anno, tale che il 13% del fondo del valore attuale è dovuta a ritorni di investimento.

Tuttavia, a dispetto delle previsioni che davano gli esperti al momento del suo lancio, ha subito un’improvvisa caduta del valore del portafoglio delle azioni investite sui mercati esteri di oltre il 9%, equivalente a 25 milioni di euro dall'inizio di quest'anno. Il vice direttore della KPST, Vershim Hatipi, ha affermato che tenendo presente la crisi finanziaria degli ultimi giorni, è stata registrata una nuova perdita del 2% sulle azioni del trust. Alla fine del 2007 il fondo ha ottenuto un apprezzamento sulle valute pari al 5%, sotto la consulenza della FX Concepts di New York la Auriel Capital Management di Londra. A causa della grande volatilità delle monete, ha perso il 12% delle aspettative sugli utili e a sua discolpa FX ha affermato che le azioni e le obbligazioni di KPST sono tutti coperti da euro. “Si tratta di un valore non definitivo, stimato sulla base dell’andamento dei mercati azionari - afferma Hatipi - e considerando che abbiamo versato importanti investimenti anche in Buoni del Tesoro del Kosovo, ci auguriamo un ritorno di utili, nel pieno meccanismo dei trust. La strategia degli investimenti del trust è stata ben studiata e prevede anche un ritorno dei mezzi nel lungo termine", sottolinea Hatipi. Occorre considerare che oltre il 95% dei fondi del trust sono stati investiti sui mercati esteri, di cui circa il 55% in azioni e il 40% in beni appartenenti a diversi Stati dell’Europa e degli Stati Uniti; mentre solo il 5% in Kosovo. Il Trust ha solo 15 milioni di euro versati presso le banche nazionali, e i profitti sono però più ampi che all'estero: 10 milioni di euro versati presso la Raiffeisen Bank fruttano un interesse del 5.8% all'anno, mentre 5 milioni presso la ProCredit Bank, produce un reddito del 5.1%.

La cosa più ridicola è che, mentre i fiduciari affermano che "il primo investimento nazionale verrà effettuato all’interno della banca del Kosovo in certificati di deposito", la possibilità di investire a livello interno sono limitate in quanto il Kosovo non emette ancora obbligazioni e non ha un mercato azionario. Allo stesso modo il settore bancario non rilascia certificati di deposito. "Attualmente, vista la crescita delle pressioni politiche nei confronti del KPST per prendere in considerazione investimenti a livello nazionale, fino ad oggi il fondo ha beneficiato di investimenti liquidi, trasparenti all’interno di mercati esteri regolamentati attraverso un team di manager", come afferma Hatipi. "I politici non hanno capito che gli investimenti saranno limitati ai certificati di deposito - dice Hatipi - personalmente non vedo il vantaggio per il Kosovo nel prendere questo tipo di decisione, visto che le banche utilizzeranno questo denaro solo per dare dei prestiti alle imprese e ai singoli individui, e che possono fare questo con o senza i nostri soldi. Comunque noi stiamo diventando sempre più fiduciosi nei confronti delle banche che possono cominciare sin da ora ad assorbire parte del nostro denaro. L'investimento iniziale, se approvato, è probabile che non supererà il 5% dei beni", aggiunge Hatipi.

E pensare che nel mese di aprile del 2005, l’amministrazione ad interim delle Nazioni Unite in Kosovo aveva fornito una serie di linee guida per gli investimenti del Trust per il Fondo Pensioni e i Risparmi del Kosovo. "Alla base di un investimento prudente per le pensioni vi è la sicurezza degli impieghi, la diversificazione degli investimenti, il massimo rendimento in linea con la percentuale di rischio connessa alle pensioni, e una gestione della liquidità adeguata - prevede il regolamento n. 2005/20 - . I fondi pensione non possono essere investiti in titoli che non sono quotati in mercati pubblici, come i Private Equity, in titoli derivati, tranne nel caso di copertura, in beni immobili o beni materiali non quotati in mercati regolamentati per i quali la valutazione è incerta, in qualsiasi proprietà dati in gestione o in custodia". Un regolamento che aveva la sua ratio nella necessità di prevenire ogni shock esogeno che potesse danneggiare l’interesse dei risparmiatori e dello Stato. Inoltre quando il fondo è stato lanciato, i fiduciari erano così "desiderosi" di mostrare i rendimenti positivi per infondere fiducia nel sistema pensionistico tra i kosovari.

La costruzione della fiducia è stata fondamentale. Hanno infatti iniziato con 13-14 milioni di euro investiti sui mercati esteri in contanti con la Abn Amro. A metà del 2005, i fiduciari hanno deciso di investire il 50% in titoli azionari internazionali, e il 50% in contanti. Un anno dopo il 40% dei investimenti in denaro sono stati reinvestiti in obbligazioni internazionali, divisi tra due gestori patrimoniali esterni. Il cambiamento più recente ha proposto di avviare una nuova assegnazione di valute. L'attuale portafoglio è composto per il 60% in azioni, il 34% in obbligazioni, il 5% in valute e l'1% in contanti. Tuttavia il valore del Fondo è diminuito di 45 milioni di euro solo negli ultimi 6 mesi, con la conseguenza che, stando a questi valori, i kosovari potranno avere solo delle pensioni che sono state versate. Se un cittadino, alla fine dell'anno scorso aveva versato nel Trust 13.600 euro, ora ne ha solo 12.480. Il valore delle azioni durante gli ultimi 5 anni era di 1.27, mentre negli ultimi sei mesi il valore di questi soldi ha subito una discesa ripida sino agli 1.12 ad azione. Cadono così tutte le illusioni costruite dai fiduciari del Trust, che con la complicità dell’UNMIK e delle Istituzioni Internazionali hanno truffato i cittadini del Kosovo. I poveri pensionati kosovari non solo non otterranno un guadagno da tale investimento, ma perderanno anche quanto versato durante anni di duro lavoro, mentre non vi è la certezza che riusciranno a recuperare le intere somme spese. I 290 milioni di euro dei kosovari che il Trust ha investito sui mercati europei, oggi pesano il 12% in meno. Come se ciò non bastasse il Trust ha inviato più di 300 milioni all'estero, affermando che "lì saranno più sicuri". "I risparmi dei kosovari sono entrati nel circuito dei mercati mondiali e condividono con loro, sia i guadagni che le perdite", afferma alla fine Hatipi, cercando un’amara consolazione nel fatto che è un semplice effetto della crisi del credito, del continuo del prezzo del petrolio, della svalutazione del dollaro e quant’altro.

Rinascita Balcanica

22 settembre 2008

Sulla pelle dell'Umanità

Dinanzi al dilagare dell'indifferenza e delle inutili lotte di massa, la Etleboro promuove un serio dialogo di discussione con i nostri parlamentari su un progetto di legge che regolamenti la sfera "immateriale" della nostra economia. Il concetto non è più quello del "Parlamento pulito", ma del "Crimine invisibile", che non si può dimostrare o condannare, e dunque che non esiste.

Per molti anni abbiamo portato avanti la nostra lotta contro il Crimine Invisibile, cercando di spiegare alle persone semplici concetti non intuitivi ma reali, tratti dall’analisi dei fatti che si susseguono. Molte volte la gente ascolta interessata, qualcuno capisce, qualcuno sorride. Si chiedono cosa sia "praticamente" il Crimine Invisibile, fingono di non capire, ma in realtà non vogliono conoscere la verità. Hanno paura, d’altronde una paura legittima perchè qualsiasi cosa accada bisogna continuare ad affrontare la vita quotidiana nella consapevolezza di essere usato e ingannato. È giunto però il momento di aprire un serio dialogo di discussione con i nostri parlamentari su un progetto di legge molto importante per affrontare il futuro della società che evolve verso l’ "immateriale", verso il dominio dei software, che sostituiranno il pensiero dell’uomo.

Il Parlamento italiano, nella sua storia, ha visto passare nella sua Assemblea tanti personaggi che hanno fatto le loro propagande senza sapere bene ciò che dicevano. Spesso hanno attaccato progetti di legge senza neanche esaminarli a fondo, per poi riproporli dopo pochi anni ben riformulati con parole diverse, per essere così accettati. Dall'altra parte vi sono i siti della controinformazione, che contengono solo teorie trite e ritrite, personaggi di un cinema all’interno del quale non possono fare assolutamente nulla, oltre che propagandare un copione già scritto. Il sistema è stato creato in maniera tale che i cittadini divengano degli utenti, "vacche da mungere", capre da tosare, e chi si è opposto ha pagato un caro prezzo: è fallito, è stato deriso ed umiliato. Alla fine chi ha potuto, ha scritto un libro che non ha comprato nessuno, e sarà sempre ricordato per delle foto da paparazzi, e così via, di generazione in generazione. Circa trent’anni fa i nostri politici parlavano dell’Europa come mezzo, che ci avrebbe portato ad un livello di vita sostenibile, ma invece siamo caduti nel baratro dell'illusione e dei sogni, dove esiste un mondo televisivo e uno reale, fatto di bollette, tasse ed usura.

Guardiamo i politici attraverso i filtri della finzione mediatica, in quella statola da allevamento planetario nata come strumento di informazione, e divenuta canale di propaganda. Così per sopperire alle lacune della televisione, si sono aperte le autostrade dell’internet, e la cosiddetta "rete" è divenuta la parola chiave dei comizi dei nuovi miti. Grazie a lei sono stati organizzati refendum, raccolte di firme, petizioni, manifestazioni, i "vaffanculoday", associazioni di casalinghe annoiate, di vittime del consumismo, e dei truffati dalle banche. Tuttavia nessuno si è mai mobilitato per il cosiddetto crimine invisibile che ha perpetrato un silenzioso etnocidio. Anche quest’ultima è una parola cancellata dai codici civili e penali, dai progetti di legge, dai libri di storia, quasi per eliminare una parte della nostra umanità, fatta anche di tragedie. Dietro agli eventi inspiegabili vi sono delle forze "invisibili", delle entità immateriali che non sono altro che i CdA delle multinazionali che controllano materie prime, trasformazione e produzione, collegate a loro volta a società marittime, di armamento e di distribuzione, all’interno di una rete capillare e finissima. Loro stessi hanno creato la leggenda delle cosiddette "società segrete", dei massoni e dei Templari, tuttavia mentre il Bilderberg è solo un grande cinema per gli appassionati, le riunioni dei consigli di amministrazione sono le vere "assemblee" che decidono le sorti dell’economia planetaria.

Combattere contro questi giganti è come essere un kamikaze, che si scontra contro un muro invisibile insormontabile, ma ciò implica che questa grande barriera non venga scalfita. L’obiettivo di tutti noi è cominciare con piccoli passi un sabotaggio silenzioso, utilizzando i loro stessi mezzi, senza sosta. Nonostante vi sia la certezza che non vedremo in questa vita un traguardo a questa lotta, da anni lavoriamo insieme per portare a termine questo progetto. Un progetto che molti hanno definito come "la resistenza", altri "una truffa", altri "intelligence parallela" di qualche complotto giudaico massonico. Tutto questo a noi non importa perché ognuno ha il diritto di costruire il suo cinema, e questo certo non potrà fermarci. Se ognuno di noi farà un piccolo passo per il bene del Paese e rimboccherà le maniche, allora piano piano scompariranno i fannulloni, i pensatori che lottano per hobby. Dunque, superata questa "triste" fase di propaganda che non ha portato a nulla, crediamo sia giunto il momento di cominciare un dialogo serio su questioni che saranno l’asse portante della nostra vita futura. La nostra intenzione è quella di proporre una proposta di legge che abbia al suo interno un concetto molto profondo: non quello del "Parlamento pulito", ma del "Crimine invisibile", che non si può dimostrare o condannare, e dunque che non esiste.

Ogni legge infatti è scritta avendo come riferimento dei fatti materiali, evidenti e comprovabili, mentre per ciò che riguarda i beni e i soggetti immateriali non esiste una vera disciplina giuridica. Esistono dei principi di diritti universali, che attualmente non sono applicati nei fatti, tranne che alcune sporadiche categorie giuridiche costruite per proteggere le grandi lobbies, come i brevetti, i marchi, i diritti di proprietà intellettuale, la diffamazione, il danno biologico, e in alcuni Stati il mobbing. Tuttavia non vi sono regolamentazioni che sanciscono i criteri sulla base dei quali devono essere costruiti i grandi cervelli dei sistemi informatici, le strutture elettroniche delle reti di informazione e di comunicazione, mentre tutto è lasciato alla discrezionalità delle grandi società private. Contatori telematici delle utenze e dei servizi, autovelox, sistemi di trasmissione dei dati riservati, database di informazioni sensibili, server ed elaboratori. Si tratta di sistemi che non sono sottoposti al controllo di nessuna struttura pubblica o normativa internazionale, ragion per cui ogni manomissione o imperfezione viene segnalata solo se produce un danno nei confronti della società stessa, ma non dei cittadini. I grandi programmi di gestione vengono "auto certificati" dalle società che li producono, che offrono una garanzia a cui credere incondizionatamente.

Sindacati a associazioni di categoria non hanno mai condotto questo tipo di lotte, preferiscono ratificare accordi sulle tariffe piuttosto che controllare i sistemi e i calcolatori che determina il calcolo delle tariffe. Ogni manifestazione si trasforma in una gita, in una manipolazione di masse, e nella maggior parte dei casi, in una semplice legittimazione di un patto già firmato tra i capi delle organizzazioni e i consiglio di amministrazione. Si può fare di più ovviamente. Il passo decisivo è quello di prendere coscienza che il crimine invisibile esiste e può colpire tutti indistintamente, anche interi Stati perché agisce sulla sfera immateriale della nostra società. Secoli fa un uomo cacciò dal Tempio i mercanti e vi mise i Templari, oggi i mercanti informatici cibernetici hanno preso possesso del nostro Tempio, della nostra umanità. È giunto così il momento che siamo noi a riprenderci la nostra vita, con la consapevolezza che possiamo fare molto di più di quello che è stato fatto. Questo è l'obiettivo della nostra struttura, la Etleboro - Elaborazioni telematiche libere economiche di base operative e ricerca ad oltranza - ossia preparare una vera e propria proposta di legge sulla quale saranno chiamati a pronunciarsi in prima persona deputati e senatori.

19 settembre 2008

Alitalia: tanto rumore per nulla

Alitalia è ad un passo dal baratro.E' questo il triste esito di un'operazione spregiudicata ed irresponsabile che il governo ha imposto quale scelta "di vita o di morte" e poi mal guidato. Berlusconi ed i suoi sodali sono usciti con le ossa rotte da questa prova di forza, ed i febbrili tentativi di trovare soluzioni alternative che si stanno susseguendo in queste ore, sembrano essere solo furbesche operazioni di maquillage per potersi ripresentare agli italiani dopo questa colossale figuraccia e dire: "non è colpa nostra".

Il Consiglio dei ministri di oggi aveva all'ordine del giorno come tema più importante il decreto legge contente ''Disposizioni urgenti per assicurare la partecipazione italiana alla missione di osservatori dell'Unione europea in Georgia''. Il blocco della trattativa su Alitalia ha, però, costretto il governo ad un cambio di programma. Toccherà a Maurizio Sacconi, ministro per le Politiche sociali, relazionare sullo stato della vicenda Alitalia. Con una dichiarazione di questa mattina, il ministro ha avvertito che l'unica soluzione in campo ''è un ripensamento di Cgil e dei sindacati autonomi che non hanno firmato la proposta di accordo, altrimenti il fallimento non ha alternative''. Secondo alcune indiscrezioni, le parti in causa - Cai la nuova societa' intenzionata a rilevare Alitalia, i sindacati che non hanno firmato l'ipotesi di accordo, il ministro Sacconi- avrebbero ancora tre giorni di tempo per tentare di riannodare i fili di un negoziato che ieri pomeriggio, com'era prevedibile, non ha dato i frutti sperati.

Di fronte al no della Cgil e dei sindacati autonomi, la soluzione potrebbe essere la formazione di una nuova società, una sorta di Cai 2, che dovrebbe rilanciare una nuova offerta di piano industriale per la compagnia aerea. A questo obiettivo starebbero lavorando da ieri sera Gianni Letta, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, e Augusto Fantozzi, commissario straordinario Alitalia nominato dal governo. Letta ha incontrato anche Gianni Alemanno, sindaco di Roma, per riferirgli delle gravi ripercussioni che l'eventuale fallimento di Alitalia avrebbe sull'economia della capitale e del Lazio. Da più parti, nella squadra del Cavaliere di Arcore, si spinge per la presentazione di una nuova offerta di trattativa, perchè il fallimento sarebbe una grave sconfitta per il governo e soprattutto per il premier Silvio Berlusconi che ha manifestato in più occasioni la convinzione che il problema Alitalia si potesse risolvere semplicemente grazie al suo intervento personale presso gli imprenditori che avevano accettato di formare la società Cai.

Intanto i sindacati autonomi hanno deciso di assicurare la normalità dei voli Alitalia e di non dichiarare lo stato di agitazione nell'aeroporto di Fiumicino. ''Nessun panico negli aeroporti e tra chi deve viaggiare, noi siamo al lavoro e garantiremo il servizio anche a costo di gravosi sacrifici'', ha precisato Antonio Divietri del sindacato autonomo Avia. ''Voleremo finchè ci sono i soldi'', è l'annuncio del commissario Fantozzi. Lo stesso Berlusconi starebbe esaminando la situazione partendo dalla considerazione che la Cai ha ritirato la propria offerta ma ha deciso di non sciogliersi come società. Da qui a lunedì ci sarebbe quindi il tempo necessario per avanzare nuove proposte o per dichiarare il definitivo fallimento di Alitalia. Una eventuale ripresa della trattativa potrebbe partire dal piano industriale avanzato dalla Cai e dalla proposta della Cgil e dei sindacati autonomi di siglare un contratto di lavoro per i nuovi dipendenti Alitalia che ricalchi i contratti adottati dalle compagnie aeree straniere e non comporti tagli considerevoli dei salari. E' infatti soprattutto quest'ultimo punto ad aver bloccato il proseguimento del negoziato.

Una novità potrebbe essere rappresentata anche dall'offerta che potrebbe arrivare da qualche compagnia aerea straniera. Si fanno i nomi di Iberia, British Airways e Air France ma gli esperti ritengono che solo la tedesca Lufthansa sarebbe in grado di avanzare una proposta. In questa eventualità, si dovrebbe rivedere una parte del piano industriale della Cai: quella che prevede la presenza di un partner straniero in quota di minoranza per almeno cinque anni. E per Berlusconi che ha sbandierato a più riprese la totale italianità di Alitalia, che all'inizio della trattativa lui stesso aveva annunciato come discrimine del piano industriale, si tratterebbe dell'ennesima figuraccia. Al momento, però, l'ipotesi più realistica è quella del fallimento. Il commissario Fantozzi, dopo aver portato i libri contabili della società in tribunale, avvierebbe la vendita di Alitalia: dal patrimonio industriale (aerei e strumentazione tecnica) alle rotte e agli orari di volo. Tutti i dipendenti della società riceverebbero immediatamente la lettera di licenziamento.

Intanto Guglielmo Epifani, segretario generale della Cgil, respinge le accuse venute da esponenti del governo sul ruolo irresponsabile che il suo sindacato avrebbe svolto nel negoziato a differenza di Uil, Cisl e Ugl: ''Per un problema di democrazia sindacale decide il 51% dei lavoratori. E le sigle confederali, tutte insieme, hanno una rappresentatività di gran lunga al di sotto di questa soglia''. Una soglia che i continui ultimatum del governo hanno contribuito ad abbassare ora dopo ora. Governo e commissario straordinario Augusto Fantozzi si sarebbero dati altre 72 ore di tempo prima di toccare per davvero con mano il baratro. Nel frattempo qualche volo sarà annullato, ma la benzina si troverà e i piloti assicureranno buona parte dei voli. La strada che divide Alitalia dal baratro è brevissima e ricca di insidie, e i falchi berlusconiani di governo, se da un lato cercano di trattare, dall'altro tentano di far passare il messaggio che non c'è un piano B e che o i sindacati accettano il piano Cai o c'è il fallimento. Staremo a vedere chi la spunterà...Di sicuro questa contesa tra giganti con i piedi d'argilla un primo effetto l'ha già prodotto:ha lasciato sul selciato migliaia di lavoratori che, tra qualche ora, vedranno sparire nel nulla l'agognato posto di lavoro.

Ernesto Ferrante
Rinascita

Le Banche di Allah

La finanza islamica non ha risentito della recente crisi dei mutui subprimes americani. Essendo vietati il prestito ad interesse e la commercializzazione dei debiti, gli investitori musulmani non corrono il rischio di acquistare prodotti complessi, come le famigerate collaterized debt obligations, che hanno scatenato la crisi. L’autorevole agenzia di rating Moody’s stima che gli asset delle banche islamiche, in un solo anno, sono aumentati del 20% raggiungendo quota 500 miliardi di dollari. Non vi è così altra strategia per arrestare l’avanzata delle banche di Allah se non alimentare il fantasma di Bin Laden e la paura del terrorismo.

Il 25 settembre 2007 Adnan Yousif, presidente dell’Unione delle Banche Arabe (Uab), ha firmato un memorandum d’intesa con l’Associazione Bancaria Italiana (Abi) per l’apertura in Italia, entro la fine del 2008, di uno sportello ispirato ai principi del Corano, in linea con quanto sta avvenendo in altri Paesi europei. È passato un anno, durante il quale si è discusso di tante problematiche legate alla presenza crescente di musulmani in Italia - apertura di moschee, matrimoni misti, studio del Corano nelle scuole, uso del velo in luoghi pubblici - ma nessuno ha seriamente approfondito i vantaggi, che avrebbero gli imprenditori e i risparmiatori italiani, se potessero rivolgersi, invece che ai soliti usurai, anche alle banche di diritto islamico. Se vogliamo davvero liberalizzare il nostro sistema finanziario, allora dovremmo aprirci a tutte le banche, non solo a quelle ispirate al modello americano.

La caratteristica più nota del sistema bancario islamico è il divieto di addebitare interessi. Il Corano (sura 2, versetto 275) vieta la riba sul denaro prestato. Il termine si riferisce non solo all’usura, cioè ad un tasso d’interesse eccessivo, ma a qualsiasi corresponsione d’interessi su mutui e depositi. Secondo la shari’ah, che è la legge islamica, soltanto il lavoro dell’uomo può giustificare l’arricchimento, sia sul piano etico che giuridico. Non è lecito percepire alcun interesse, neanche minimo, perché esso rappresenta un guadagno del creditore collegato al semplice decorrere del tempo. L’Islam consente solo un tipo di prestito - chiamato qard-elhassan, che letteralmente significa buon prestito - dove il prestatore non addebita alcun interesse o importo addizionale alla cifra prestata. Il creditore offre il prestito per ottenere la benedizione di Allah e si aspetta una ricompensa solo da Allah. Le risorse per questo tipo di operazione sono prelevate da un fondo di solidarietà, detto decima legale (zakat), formato dai contributi volontari che tutti i musulmani versano a favore dei poveri e che vengono gestiti dalle banche per conto delle comunità locali o dei governi. Il denaro erogato come buon prestito viene usato a scopo di consumo o per l’acquisto di beni di prima necessità.

La condanna dell’usura deriva dal fatto che la moneta è considerata unità di misura e mezzo di pagamento. Non avendo alcun valore intrinseco, non può generare altra moneta tramite il pagamento d’interessi. Il lavoro umano, lo spirito di iniziativa e il rischio insito in un’attività produttiva, sono più importanti del denaro usato per finanziarli. I giuristi musulmani considerano la moneta come capitale potenziale, piuttosto che come capitale in senso stretto, nel senso che essa diventa capitale solo quando viene investita in un’attività economica. Di conseguenza, il denaro anticipato sotto forma di prestito è considerato un debito dell’impresa e non un capitale. In quanto tale, non dà diritto ad alcun profitto. Il suo potere d’acquisto non può venire usato per creare direttamente maggiore potere d’acquisto, ma deve passare attraverso una fase intermedia che la compravendita di beni e servizi.
Partendo da questa visione della moneta, la finanza islamica si fonda sull’idea che prestatore ed utilizzatore di moneta devono spartire in ugual misura il rischio d’impresa, affinché tutta la comunità, e non soltanto una categoria di operatori economici, ne tragga beneficio. Ciò vale per fabbriche, aziende agricole, società di servizi o semplici operazioni commerciali. Tradotto in termini bancari, significa che tutti i soggetti coinvolti - il depositante, la banca, il debitore - devono dividere i rischi e i guadagni derivanti dal finanziamento di una certa attività. É il principio del profit-loss sharing, conosciuto ma scarsamente applicato nel sistema bancario occidentale, che invece obbliga il debitore a restituire l’ammontare del prestito ricevuto, insieme all’interesse imposto, indipendentemente dal successo o dal fallimento della sua impresa. Tecnicamente la condivisione del rischio d’impresa si sostanzia in varie forme di finanziamento, di tipo associativo o partecipativo.

Col murabaha la banca acquista un macchinario per conto del cliente e lo rivende al cliente stesso ad un prezzo più alto. Col mudaraba la banca investe fondi per conto del cliente e prende una percentuale sui profitti derivanti dall’investimento. I depositi bancari sono generalmente accettati in tale forma. Col musharaka la banca e il cliente costituiscono una società, o acquistano una partecipazione societaria, condividendo profitti e perdite derivanti dall’operazione. La legge islamica proibisce anche la gharar, parola che significa incertezza, rischio, speculazione. Le parti contraenti devono essere perfettamente a conoscenza dei controvalori che sono scambiati come risultato delle loro transazioni e non possono predeterminare un profitto garantito. I cosiddetti futures - che sono promesse di futuri acquisti o vendite - sono considerati strumenti finanziari immorali, così come le transazioni finanziarie in valuta estera, perché i tassi di cambio sono determinati dai differenziali dei tassi di interesse. Molti studiosi islamici disapprovano anche l’indicizzazione del livello d’indebitamento tramite l’inflazione. Tuttavia alcune transazioni sono considerate eccezioni al principio del gharar, come le vendite con pagamento anticipato (bai’ bithaman ajil) e il contratto di leasing (ijara).

In ogni caso esistono precisi requisiti legali affinché questi contratti siano stipulati e conclusi in modo da minimizzare qualsiasi rischio. Ad esempio, nel leasing islamico - che consente alla banca di acquistare un bene per un cliente ed affittarglielo per un certo periodo, al termine del quale il cliente può acquistare il bene medesimo - la somma d’acquisto deve essere pari al totale delle rate, maggiorata soltanto della remunerazione del servizio prestato dalla banca. Bisogna infine considerare che uno dei pilastri dell’Islam è la donazione (zakat), basata sull’idea di una purificazione della propria ricchezza tramite una parziale redistribuzione, che assume la forma di una tassa religiosa. Ad essa sono soggette le stesse banche e milioni di credenti, anche quelli emigrati. Si tratta di cifre enormi, difficili da valutare, che costituiscono un flusso ininterrotto di risorse impiegate per l’assistenza ai più bisognosi, ma anche una forma di finanziamento per la difesa e la diffusione della fede.

La prima banca islamica nacque in Egitto nel 1963, ma solo dopo la crisi petrolifera dei primi anni settanta cominciò il vero sviluppo della finanza islamica. Nel 1975 fu decisa l’istituzione di una banca pubblica, la Islamic Development Bank, con la partecipazione di 44 Paesi membri dell’Organizzazione della Conferenza Islamica (Oci), creata fin dal 1969. I principali azionisti sono l’Arabia Saudita (26%), la Libia (16%) e il Kuwait (13%). Il suo compito è quello di favorire il commercio tra nazioni musulmane, finanziare operazioni di leasing e vendite in acconto, creare fondi speciali per progetti di sviluppo. Nello stesso anno nacque la Dubai Islamic Bank, la prima banca privata islamica, e nel 1978 fu insediata in Lussemburgo la prima banca islamica occidentale, denominata allora Islamic Banking System ed ora Islamic Financial House. Nel 1979 il Pakistan decretò l’islamizzazione di tutto il settore bancario. Lo stesso avvenne in Sudan ed Iran nel 1983. Attualmente esistono 166 banche islamiche, che concentrano circa un 80% della raccolta in Medio Oriente ed il resto in altri Paesi musulmani, principalmente Malaysia e Indonesia. I gruppi più importanti sono quattro: Dallah Albaraka Group (Arabia Saudita), Dar al Maal al Islami Trust (Arabia Saudita), Alrahj Group (Arabia Saudita) The Islamic Investor (Kuwait).

Negli ultimi anni sono stati lanciati fondi azionari islamici che seguono criteri rigorosi nella scelta dei titoli. Sono escluse le imprese di settori immorali (bevande alcoliche, tabacco, pornografia, carne di maiale, armi), quelle che hanno un debito superiore al 33% della capitalizzazione, quelle che commerciano con Israele e quelle che praticano l’usura, cioè tutte le banche ed assicurazioni di diritto occidentale. In tutto il mondo esistono ben 144 fondi islamici che distribuiscono utili crescenti sotto forma di obbligazioni (sukuk) che, a differenza dei bond occidentali, non pagano interesse in senso stretto, ma sono cedole rappresentative di quote di profitti legate alle attività delle imprese selezionate. Il primo sukuk fu emesso nel 1990. Dieci anni dopo avvenne la seconda emissione, solo 3 sukuk per 336 milioni di dollari. Nel 2003 sono aumentati a 37 per un ammontare di 5,7 miliardi di dollari. Nel 2006 sono stati emessi ben 199 sukuk, per oltre 27 miliardi di dollari, altri 206 nel 2007 per quasi 47 miliardi di dollari, ed infine 44 nel 2008 per altri 2,4 miliardi.

La finanza islamica non ha risentito della recente crisi dei mutui subprime americani. Essendo vietati il prestito ad interesse e la commercializzazione dei debiti, gli investitori musulmani non corrono il rischio di acquistare prodotti complessi, come le famigerate collaterized debt obligations, che hanno scatenato la crisi. L’autorevole agenzia di rating Moody’s stima che gli asset delle banche islamiche, in un solo anno, sono aumentati del 20% raggiungendo quota 500 miliardi di dollari. Parallelamente sottolinea i rischi legati alla credenza che tali istituti servano a finanziare il terrorismo internazionale. Evidentemente il sistema usuraio occidentale non ha altra strategia per arrestare l’avanzata delle banche di Allah se non alimentare questa credenza e fomentare il cosiddetto scontro di civiltà, col fantasma di Bin Laden che periodicamente appare per pronunciare rivendicazioni e minacce. Per gli italiani, che non sono musulmani ma sono stanchi di subire il potere usuraio, l’attrattiva della finanza islamica si spiega soprattutto in rapporto alle disfunzioni della finanza globale. Ciò vale soprattutto per il Mezzogiorno, il cui divario rispetto alle regioni del Nord, si misura anche in termini di costo del denaro. Ma in generale, è tutta l’economia italiana ad essere ostaggio di un sistema bancario che privilegia i profitti dei creatori di moneta, cioè le banche, rispetto ai bisogni degli utilizzatori di moneta, cioè imprese e famiglie. La banca senza banchieri. Questo è il cardine del socialismo islamico. Nel capitalismo occidentale esiste invece un conflitto strutturale tra imprese bancarie, che producono moneta dal nulla e lucrano sul tempo, ed imprese industriali e commerciali, che faticano a produrre lavoro perché schiacciate da interessi e garanzie vessatorie imposte dall’usurocrazia globale. Sarebbe riduttivo considerarlo un conflitto interno alla classe capitalista, poichè esso rappresenta la vera lotta di classe: lavoro contro usura, imprenditori ed operai contro banchieri.

Raffaele Ragni
- Rinascita

18 settembre 2008

Balcani, terre di conquista

L’apparenza sfarzosa e di tendenza spesso tradisce, in quanto dietro le promesse di guadagni facili e di grandi investimenti si cela una realtà ben diversa, che la gente dei Balcani percepisce subito, e sa bene fino a che punto può spingersi per "spennare l’ultimo pollo arrivato". Belgrado, Zagabria, Tirana, Skopje, sono tra di loro simili per certi versi, la storia si ripete sempre e puntualmente allo stesso modo, da oltre 15 anni.

Divisi tra Oriente ed Occidente, i Balcani si confermano una terra di conquista per piccoli e grandi affaristi che intravedono in questi Paesi il loro piccolo "regno" da governare. Ciascuno di essi trova infatti terreno fertile per affondare le radici del proprio dominio economico, oppure per ricrearsi una vita. Da una parte, dunque, vi sono i grandi gruppi di investimento che giungono scortati da uno stormo di consulenti finanziari e di comunicazione che andranno ad occupare anche importanti cariche per "consulenza esterna", e dall’altra imprese di medie dimensioni che arrivano a bordo di macchine lussuose e contante alla mano, promettendo agli "indigeni" grandi opportunità di sviluppo. Nella maggior parte dei casi, questi "grandi imprenditori" che millantano business milionari, sono divorziati o vedovi, oppure scappano da fantasmi del passato, nell’illusione che lo squarcio dei nuovi mercati possa aprire loro un futuro diverso. Quelli che hanno sogni nel cassetto mai realizzati ritrovano il loro habitat naturale per farsi notare, nel bene e nel male, venendosi a creare una difficile convivenza.

L’apparenza sfarzosa e di tendenza spesso tradisce, in quanto dietro le promesse di guadagni facili e di grandi investimenti si cela una realtà ben diversa, che la gente dei Balcani percepisce subito, e sa bene fino a che punto può spingersi per "spennare l’ultimo pollo arrivato". Belgrado, Zagabria, Tirana, Skopje, sono tra di loro simili per certi versi, la storia si ripete sempre e puntualmente allo stesso modo, da oltre 15 anni. Molti di questi fenomeni di avventura, si sono trasformati in realtà di cooperazione e collaborazione virtuosa, dando vita a piccoli distretti industriali manifatturieri che sfruttano i vantaggi delle cosiddette "zone franche" direttamente collegate ai mercati europei orientali e a quello russo. La Vojvodina, il distretto di Brcko, la stessa Republika Srpska, nonché ampie zone della Serbia e dell’Albania, sono fiorenti mercati per un’economia sostenibile di piccole e medie dimensioni, che rispetta la popolazione e le sue risorse. L’altra faccia della medaglia sono i patetici tentativi di millantatori che giungono in queste terre nella convinzione di "donare" sapere e ricchezza, di trovare dinanzi a loro degli indigeni con l’ "anello al naso", mentre nella maggior parte dei casi è la gente del popolo che insegna loro come vivere, come fare della propria umiltà una fonte di ricchezza.

Ciò che accade nei mercati di micro-dimensione, si ripete quasi identicamente ai massimi livelli dirigenziali, ovviamente con più spettacolo e gesti eclatanti, avendo attorno a sé uno stuolo di Organizzazioni non Governative e di media prestigiosi pronti a gridare contro la corruzione e dei Governi locali. Associazioni come Transparency International sono state appositamente create per far sì che ogni appalto di vendita e di privatizzazione andasse in porto nel modo prestabilito, facendosi scudo dei rapporti redatti dalla Banca Mondiale, dalla BEI o dal Fondo Monetario Internazionale che individuano nello scorporo ai privati del patrimonio nazionale una soluzione al cancro del sistema corrotto. Ogni evento diventa un’ottima occasione per fare propaganda, per diffondere il credo delle grandi agenzie di consulenza occidentale e "fare il bene del Paese". Il fatto strano è che gli stessi consulenti delle banche fallite e nazionalizzate per evitare il panico tra risparmiatori e debitori, sono quelli che oggi chiedono ai Governi dei Balcani di privatizzare, in nome delle direttive europee e della volontà delle Istituzioni sovranazionali. È ovvio che anche per loro, i Balcani costituiscono una piccola terra di "riconquista" della credibilità persa in Occidente.
Un po’ come Richard Holbrooke che, dopo la magra figura per l’affare Karadzic e il sospetto di aver violato il patto segreto per la pace in Bosnia, si presenta in Kosovo come ambasciatore di "garanzie" per il riconoscimento dell’indipendenza, nella speranza che questo traguardo possa restituirgli la dignità persa. Lo stesso George Soros si è esibito ieri al Summit UE in un patetico gesto di "umanità" sposando la causa Rom e accogliendo gli applausi dei convenuti, proprio lui che con la sua Human Rights Watch ha provocato guerre e rivolte senza senso in ogni luogo in cui è sbarcata. Le speculazioni sui problemi e i crimini contro le etnie dovrebbero servire ad altri scopi, e non a lucidare il sorriso di un ricco finanziere che proprio in queste terre ha fatto carne da macello.

Le campagne diffamatorie e la cosiddetta propaganda dell’ultranazionalismo sono le armi preferite da scagliare contro i Governi reticenti che non vogliono concedere troppo ai gruppi esteri. Contro la Republika Srpska si scaglia la tragedia di Srebrenica, contro l’Albania i traffici di armi e di droga, per la Serbia ogni cosa che possa ostacolare il suo progresso. I serbi sono "macellai", i bosniaci sono "musulmani" o "multietnici" a seconda della convenienza di turno, i montenegrini sono un’etnia a parte ma soprattutto "non sono serbi", i macedoni sono gli unici che sono rimasti all'epoca del socialismo, mentre gli albanesi sono vittime o carnefici a seconda del punto di vista. I problemi sociali auto-indotti dall’eccessivo sfruttamento e dalla cattiva amministrazione di governi un po’ troppo pilotati, diventano poi anche un alibi per il fallimento delle Branch e delle multinazionali, che chiudono le serrande e scappano con il bottino. D’altronde è sempre colpa dei Balcani, a tutti sta bene così e a tutti fa comodo, tanto nessuno sentirà le loro urla. Nella sua complessità, sono davvero una vera terra di conquista per ogni strato sociale, perchè qui in questi Paesi - un po' vivaci - non ci si può annoiare, si contano miliardi solo con le parole, nei lussuosi ristoranti per poi scappare prima che arrivi il conto. Di consulenti internazionali e di "Presidenti" di società create a Londra con 50£ e una segreteria telefonica automatica ne sono venuti fin troppi, e tutti puntualmente sono spariti con il bottino. "Affari business" sono le parole d'ordine di questi mercenari che si aggirano nelle strade con occhi ben vigili e sguardi da lupo, affamati per la loro preda, mentre tutti sono distratti dallo spettacolo mediatico dei processi di democratizzazione fatti a suon di "gay pride". Però, la cosa bella di questi luoghi, è che non si sa mai chi vincerà, se la preda o il famelico cacciatore.

16 settembre 2008

Le branch e il fallimento controllato delle multinazionali


Lo sfruttamento dei mercato avviene spesso attraverso le cosiddette "branch", che vengono create per raggiungere determinati obiettivi, fino all'esaurimento. Quando il mercato è divenuto ormai sterile viene chiusa la filiale creata per tale scopo, gli utili vengono incassati dalla casa madre attraverso un giro di scatole cinesi, mentre le perdite restano a nome della branch che ha dichiarato il fallimento.

Come è ormai noto, il sistema economico, essendo stratificato in base alle quote di mercato possedute, è prevalentemente controllato dalle cosiddette corporation. I gruppi multinazionali riescono infatti a decidere la soglia della sostenibilità economica per le piccole e medie imprese ed interi popoli, avendo le dimensioni e le risorse per fronteggiare o addirittura a causare una crisi, se questa può tradursi in un’opportunità per conquistare un mercato o sbaragliare dei concorrenti. Questo tipo di strategie sono frequenti in mercati in via di sviluppo, tormentati da crisi politiche e spesso resi vulnerabili da conflitti e destabilizzazioni molto gravi.

Il più delle volte l’ingresso nel nuovo mercato da sfruttare avviene attraverso le cosiddette "branch", che vengono collocate nell'area interessata per "spremere" dal territorio quanti più utili possibili, fino all'esaurimento. Quando il mercato è divenuto ormai sterile viene chiusa la filiale creata per tale scopo, gli utili vengono incassati dalla casa madre attraverso un giro di scatole cinesi, mentre le perdite restano a nome della branch che ha dichiarato il fallimento. Questo accade per le multinazionali, per gli istituti bancari, per la grande distribuzione, cioè per tutto ciò che il mercato del consumo offre. Grazie al loro forte potere economico e ad una struttura reticolare studiata per evitare il tracciamento delle transazioni, tali gruppi economici riescono a sopravvivere senza regole o principi, essendo al di sopra degli stessi organi locali, e al fianco delle istituzioni internazionali. Quando infatti firmano un contratto a 90 giorni è chiaro che pagheranno a 120 oppure a 160, perchè con il loro apparato burocratico, riescono a prolungare a dismisura i tempi per i procedimenti e i ricorsi, la cui risoluzione appare ad un orizzonte quanto meno lontano.

La loro presenza comincia a divenire così integrata all'interno del territorio, da divenire invisibili e inarrivabili, grazie al potete filtro attuato dalla branch locale. Questa infatti riesce a creare la lobby sviando dalla casa madre ogni danneggiamento di immagine o economico, come dei veri e propri fusibili. Quando una branch fallisce, i responsabili affermando che vi è stata "un’aggressione economica", una "sopravvalutazione del mercato", una "ostilità da parte dei Governi locali", qualsiasi cosa pur di non nominare la parola "fallimento". Un’incolumità che viene quanto più garantita da un potere giudiziario debole, dall’inesistenza di Agenzie o organismi di controllo che possano salvaguardare l’economia locale. Basta pensare al Gruppo Fiat, che sino a qualche anno aveva un debito di oltre quattordici miliardi di euro, e in soli cinque anni è riuscito a fare dividendi con gli azionisti.
Oggi sapete come è finita? Tutti in cassa integrazione e nessuno osa parlare, nessuno osa pensare, perchè il Gruppo Italiano controlla tutto: giornali, banche, assicurazioni, tribunali. Questo è il mercato e questi sono i padroni, e in ogni nazione c'è una Fiat che controlla e che è alleata con tutte le Fiat del mondo,che a loro volta controllano tutto il globo.
Non bisogna andare neanche tanto lontano, volgendo lo sguardo alla storia attualissima, con il fallimento controllato delle Banche che, "desolate" informano il taglio di oltre 6000 posti di lavoro, e tanti altri milioni di dollari che non verranno mai pagati. La Lehman Brothers dichiara fallimento come qualsiasi altra impresa che non vuole pagare i suoi creditori: chiude i battenti e le branch europee, si rifugia nel patrimonio "di famiglia" e poi si ripropone sul mercato sotto un'altra veste. E' ovvio che le Banche e i grandi gruppi industriali non falliranno mai, ma semplicemente bruciano i soldi di altri, per poi ributtarsi nella mischia.

La piovra delle corporation non si ferma solo al mercato, ma dilaga proprio all'interno della Commissione Europea e dei suoi comitati di esperti. Occorre infatti riflettere sul fatto che le negoziazioni per i processi di integrazione, i road map per la ratifica dell’Accordo di Associazione e Stabilizzazione, e dunque le misure da prendere, vengono decise dalla Commissione Europea sulla base della consulenza dei comitati di esperti. Questi, composti da professori, consulenti privati e dirigenti di grandi società, forniscono un parere più o meno vincolante sui progetti, sulle decisioni e sulle direttive, nonché sulle strategie di politica economica ( si veda Register of expert groups ) . I rapporti da essi redatti hanno una forte influenza sul parere della Commissione Europea, il cui potere è incontrastabile, considerando che detiene il potere esecutivo e legislativo, al contrario del Parlamento Europeo che ha solo un potere consultivo e propositivo. Come si può notare, il potere economico delle multinazionali si estende ben oltre la semplice influenza sul mercato, avendo insinuato i suoi tentacoli nelle strutture politiche che reggono il destino dei Paesi. Comprano e controllano tutto: Governo e opposizione di qualsiasi nazione del mondo e nessuno fiata, nessuno parla .
Gli intellettuali e i cosiddetti giornalisti d'assalto parlano di tutto, ma mai di loro. Chi critica il gruppo Rotschild? Chi critica la Goldman Sachs? Chi critica la Fiat? Chi critica Rockfeller? Eppure questa gente tutti i giorni fa morti sui mercati finanziari e loro guadagnano sempre, e alla fine della giornata passano dalla cassa e contano i loro guadagni. Sono divenute ormai ridicole le trasmissioni televisive, dove si trovano quelli che dovrebbero informare l'opinione pubblica e far capire chi è il diavolo e chi è l'acqua santa.

Questi signori delirano e ripetono come pappagalli il copione che gli è stato assegnato, perchè anche loro sono prezzati dai grandi potenti, e al massimo se la prendono con i nuovi arricchiti che non fanno parte del buon salotto di potere. La magistratura nulla può su queste realtà, e nessuno si interroga su questi argomenti, nemmeno l’opposizione, e neanche chi mette le bombe per strada, nulla, la cosa più strana è che neanche gli stessi estremisti contestano queste strutture.
Perchè nessuno si chiede perché chi produce il cacao non è mai diventato ricco ma sempre più povero, e lo stesso è accaduto per i Paesi produttori di caffè, dove le sole multinazionali hanno ottenuto un effettivo guadagno. La guardia di finanzia nelle sue innumerevoli perquisizioni, viene circoscritta al suo territorio nazionale, e quando si vogliono chiedere spiegazioni ad una banca, oppure ad una multinazionale, ecco il solito gioco di prestigio, dei soliti prestigiatori di avvocati, consulenti, faccendieri, contractors, di tutto e di più, una vera macchina da guerra.