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19 dicembre 2016

Russia-Francia: L'incontro segreto tra Putin e Sarkozy

Tutto il mondo pensò che l'allora Presidente Nicolas Sarkozy, durante la conferenza stampa del G7 del 2007 era del tutto ubriaco. In realtà era sconvolto, letteralmente scioccato dal suo precedente colloquio con il Presidente russo Vladimir Vladimirovič Putin. 

Veniamo ai fatti. Appena arrivati, Nicolas Sarkozy apre il suo incontro con un lungo discorso, facendo la morale a Putin da spavaldo, come suo fare. Il Presidente russo lo ascoltò in silenzio, e dopo 20 minuti Sarkozy smise di parlare. Ci furono quindi 45 secondi di imbarazzo, quando Putin si rivolse a Sarkozy con uno sguardo gelido e voce sicura. "Hai finito ? - incalzò Putin - Allora ascoltami bene: tu sei appena stato eletto Presidente, ma tieni presente Nicolas la Francia è piccola", mimando con le mani un piccolo quadrato, "mentre la Russia è grandissima", allargando di colpo le braccia. "Se io voglio, ti schiaccio: da oggi in poi non mi parli più con questo tono. Se tu mi ascolti, diventerai il re d'Europa…

Ci furono altri 15 minuti di insulti di basso livello, poi Putin si alzò, lasciandolo solo sulla sedia, umiliato. Il Presidente francese non poteva credere alle sue orecchie, ne rimase talmente scioccato che ebbe difficoltà a riprendersi. Non sapendo più cosa dire, si presentò alla conferenza stampa un po' stordito, e tutti pensarono che Sarkozy e Putin si erano ubriacati. In realtà, nessuno dei due beve. Questa la triste cronaca di un piccolo uomo, letteralmente schiacciato dalla sua stessa superbia e da un gioco forse più grande di lui.  




02 maggio 2016

Militari italiani uccisi in Libia: in azione gruppi di disinformatori per screditare l'Italia

Tripoli - Nonostante le smentite ufficiali del Ministero della Difesa, continua a circolare sui media libici la notizia circa un presunto attentato avvenuto ai danni di un convoglio di forze speciali italiane da parte di Daech nei pressi di Sirte e Misurata. A rilanciare la notizia è un anonimo centro studi, il Libyan Center for Terrorism Studies - LCTS, che accredita l'informazione bypassata nei giorni scorsi dal portale israeliano Debka-file (si veda Disinformazione: falsa la notizia di Debka su attentato a forze speciali italiane in Libia ). Stando all'analisi dell'Osservatorio Italiano, la citazione del centro libico sui media arabi, di una notizia messa in circolazione da un portale straniero, rientra nello schema della propaganda disinformativa gestita da società di comunicazione, che rispondono direttamente a gruppi di interesse .  Questa strategia ha l'obiettivo di creare confusione, per intavolare in futuro una nuova conferenza di pace, sotto l'egida di altre potenze occidentali. Va ricordato, in merito, che L'Italia, pur avendo ottenuto il comando di un ipotetico e futuro intervento militare in Libia delle forze dell'Alleanza Atlantica, si è sempre detta contraria al bombardamento unilaterale del territorio libico, mentre continua a tenersi distante da ogni interferenza nella politica interna.  Tuttavia, vengono diramati continuamente comunicati di media o centri di ricerca, che contengono notizie di parte, false e diffamatorie, per dissimulare l'esistenza di un sentimento anti-italiano in Libia. L'Osservatorio italiano ha rilevato l'esistenza di piccoli gruppi di "influencer" che fanno una vera e propria opera di sciacallaggio. Ha destato non pochi dubbi la manifestazione di Bengasi dello scorso venerdì 29 aprile, quando un ristretto gruppo di manifestanti ha portato con sé delle bandiere da bruciare sotto gli obiettivi dei reporter, che a loro volta hanno divulgato le immagini attraverso i  social network ( si veda Manifestazioni in Libia:quando l'informazione segue il trend politico e Bandiera italiana bruciata in Libia: quelle notizie anonime che diventano realtà ). Questa tecnica di infiltrazione dei media è ben conosciuta, come lo sono anche gli organizzatori dei tali gruppi e quali sono le forze che stanno finanziando tale propaganda. Si nascondono dietro le parole "democrazia, diritti umani", mentre agiscono per soddisfare gli interessi delle lobbies. Ricordiamo che quando Francia e Gran Bretagna ha promesso la libertà  ai libici "dal regime di dittatura", che avevano  già un piano, quello di appropriarsi di laute concessioni per lo sfruttamento delle risorse libiche, in particolare di gas e uranio. Oggi hanno perso credibilità, e stanno finanziando la disinformazione per riaprire i tavoli di discussione sulla Libia, ma soprattutto per sottrarre all'Italia il comando militare, e tornare quindi ad essere protagonisti nelle decisioni internazionali sulla Libia.

30 aprile 2016

Manifestazioni in Libia:quando l'informazione segue il trend politico

Lo schieramento diplomatico dell’Italia in Libia comincia a divenire il bersaglio mobile di una strategia di disinformazione, volta a sferrare un attacco mediatico nei confronti dell’Italia. L’obiettivo di tale strategia è quello di creare un sentimento anti-italiano tra la popolazione libica, infondendo diffidenza nell’opera di assistenza e di consulenza della diplomazia italiana al fianco del Governo di riconciliazione. Sono attualmente in gioco delle forze molto forti,  provenienti dai nostri diretti competitor e dalle potenze arabe che stanno coltivando grandi interessi in Libia, e cercheranno di sfaldare il processo di pace che intende riunire il popolo libico.

Si può infatti osservare una escalation nella progressione della pubblicazione delle notizie, su media e social network, che potrebbe sfociare in un evento di maggiori dimensioni mediatiche, approfittando della pausa festiva del 1° Maggio, quando media italiani e libici sono in pausa e hanno una capacità di reazione più lenta. Come spesso accade in queste dinamiche di disinformazione, le notizie spacciate provengono da fonti anonime – spesso utenti sentitici neo-creati che appaiono sui social network – non contengono elementi precisi che permettono di verificare l’informazione, o di collocarla nel tempo e nello spazio.

E’ di oggi, infatti, la notizia pubblicata dal portale israeliano Debka-file circa l’attentato di Daesh ad un convoglio di forze speciali italiane partite da Misurata e diretto verso Sirte. Citando fonti anonime dei servizi di sicurezza, Debka afferma che un convoglio costituito da forze speciali italiane, britanniche e truppe libiche, era in viaggio dalla città nord-occidentale di Misurata verso Sirte, quando è caduto in un'imboscata  di Daesh subendo gravi perdite. La fonte afferma con certezza che vi sarebbero delle vittime italiane, mentre non precisa alcun dettaglio sul luogo in cui sarebbe avvenuto l'attentato.

Di lì a poche ore,  sono comparse sui social network foto di bandiere italiane che vengono bruciate da manifestanti (presumibilmente in Libia), commentate con molteplici messaggi anti-italiani, per ricordare la vittoria dei ribelli libici a Gasr Bu Hadi, il cui anniversario  cade appunto il 29 aprile.   E’ interessante notare che la  stessa dinamica dell’attentato di Daesh spacciato da Debka-file sembra rimarcare proprio la storia della battaglia di Gasr Bu Hadi, avvenuta appunto sul territorio tra Misurata e Sirte.

A differenza delle consuete manifestazioni che si sono susseguite in questi anni per la ricorrenza di tale anniversario, la protesta di quest’anno è stata appositamente organizzata dalla corrente politica pro-Haftar   - e quindi dai gruppi di potere esteri che giocano di sponda -  portando delle bandiere italiane, per far credere all’opinione pubblica occidentale che esiste un sentimento diffuso anti-italiano tra la popolazione libica.   In realtà, i libici hanno  manifestato anche in passato bruciando quelle bandiere, perché erano il simbolo della colonizzazione, e non perché vi è un sentimento anti-italiano largamente condiviso. Al contrario,  le correnti pro-Haftar hanno voluto bypassare tale ricorrenza come manifestazione di protesta “all’intervento militare italiano in Libia”.

E’ possibile quindi tracciare uno scenario, in cui varie dinamiche cominciano a confluire tra loro, per raggiungere un unico obiettivo, ossia quello di tagliare l’Italia fuori dalla scena diplomatica, a favore di Francia e Gran Bretagna, che pretendono oggi di “riappropriarsi” della gloria di liberatori della Libia dal regime, e quindi di vantare pretese sullo sfruttamento esclusivo delle risorse energetiche libiche.

In primo luogo,   il Generale Haftar vuole far credere al popolo libico che solo sotto  il suo comando la Libia sarà libera da ingerenze straniere, nascoste  dietro il Governo di riconciliazione nazionale.  In secondo luogo, Francia, Gran Bretagna ma anche Egitto ed Emirati Arabi, stanno fomentando il Generale Haftar, dissuadendolo dell’idea che “la liberazione di Sirte scongiurerà l’intervento internazionale, e farà di lui l’unico ed indiscusso liberatore della Libia”. A tale scopo, utilizzano la retorica della “colonizzazione italiana” come forte immagine comunicativa del sentimento di ribellione del popolo libico, anche perché la carta del “Tiranno Gheddafi” è stata da tempo bruciata ed inflazionata dal fallimento della rivoluzione e dallo scoppio della guerra civile.

Ci chiediamo quindi come mai l’analista dell’International Crisis Group (ICG) Claudia Gazzini ha pubblicato due giorni fa la foto di una bandiera italiana  dicendo che era stata bruciata in una manifestazione di protesta del 25 aprile, e poi oggi rinegozia la sua posizione, affermando che era stata bruciata durante una “manifestazione di test e di preparazione per l’evento del 29 aprile”.  Forse l’ICG conosceva in anticipo cosa sarebbe accaduto nella protesta di questo venerdì, che sarebbero state bruciate delle bandiere, e che sarebbe stato per manifestare contro l’intervento militare italiano? Tutto sembra portare ad un’unica pista, ossia che questa protesta è stata opportunamente organizzata per inviare un duplice messaggio mediatico: all’opinione pubblica internazionale sulla diffusione di un sentimento anti-italiano, e all’opinione libica, su doversi affidare ad Haftar per evitare il bombardamento della NATO.  Il tutto dovrà essere amplificato dai media, per ingigantire il fenomeno e creare un trend, quello appunto del malumore del popolo libico contro l’Italia.  D’altro canto, fallito il primo tentativo di impressionare i libici e la stampa italiana, la notizia viene rilanciata proprio questo venerdì con nuove bandiere, aspettando che i media italiani rilancino la notizia per fare ancora più clamore.

Subentra così il ruolo della macchina mediatica che, opportunamente calibrata, riesce a sferrare attacchi con enormi danni collaterali, anche perché i giornalisti e i media italiani sono stati più volte beffati da false notizie non verificate. Basti ricordare la notizia trasmessa dai telegiornali nazionali sul presunto omicidio di un trafficante di esseri umani a Zuwarah da parte di forze speciali italiane; oppure la notizia sull’attacco mai avvenuto al compound della Mellitah Oil&Gas; o ancora della sfilata di una colonna di 30 veicoli di Daesh sulle strade di Sabratha, anche questa non avvenuta; sino all’ultimo caso del falso annuncio della fuga del Primo Ministro del Governo di Tripoli, tempestivamente smentita.  E’ chiaro che la tecnica comincia ad usurarsi e diviene sempre meno credibile, come assolutamente non-credibili sono i registi di questa messa in scena, la cui opera di finzione era fallita già ai tempi di Bernard Levy.   

29 aprile 2016

Bandiera italiana bruciata in Libia: quelle notizie anonime che diventano realtà

E' un twitter dell'analista dell'International Crisis Group (ICG), Claudia Gazzini, a sollevare un polverone mediatico sul presunto incendio di una bandiera italiana durante una manifestazione a Bengasi, per protestare contro la dichiarazione del Ministro della Difesa Pinotti a sostegno del nuovo governo di riconciliazione nazionale (si veda tweet). La notizia ha fatto rapidamente il giro dei media italiani, che hanno ripreso la notizia per dare inizio ad una serie di speculazioni non verificate, cadendo così  in maniera inconsapevole nella macchina della propaganda. La  notizia si è subito rivelata falsa ed inattendibile,  provenendo da una fonte anonima, a sua volta amplificata da un’organizzazione che ha un discutibile reputazione in termini di affidabilità delle informazioni spacciate. Basti ricordare la causa per calunnia e diffamazione sollevata contro l'International Crisis Group ai danni Filip Zepter, condannata dalla Corte d'Appello americana, per il rapporto pubblicato nel 2003 che collegava l’imprenditore serbo all'ex Presidente serbo Slobodan Milosevic ( si veda Sentenza United States Court of Appeals District of Columbia Circuit No. 06-7.095 ).  

Contattata da un utente twitter, l’analista ha affermato da aver ricevuto la foto da terzi, che hanno attribuito l’immagine ad una “manifestazione a piazza Al-Qish di Bengasi avvenuta  due giorni fa” (quindi il 25 aprile). Tuttavia, non esiste nessuna traccia su una presunta manifestazione a Bengasi nel corso della quale sarebbe stata bruciata la bandiera. Le ultime manifestazioni in Piazza Al-Qish sono avvenute intorno al 22 aprile, per manifestare contro la dichiarazione di fiducia al Governo di riconciliazione da parte di un gruppo di parlamentari astenuti.  Inoltre, la foto non contiene alcun elemento visivo che consenta di collocarla nel tempo o nello spazio, come ad esempio il viso dei manifestanti. Dinanzi alla replica dell'utente, che ha subito messo in dubbio la veridicità della foto, l'analista ha rilanciato con un altro twitter contenente una parziale smentita, e che al momento non può né confermare né negare .

Sembra quindi evidente il tentativo dell'ICG di inquinare il clima mediatico, e scagliare l'opinione pubblica libica contro l'Italia, che ha scelto di schierarsi al fianco della missione delle Nazioni Unite nella finalizzazione del processo di stabilizzazione della Libia, con l'insediamento di un Governo di unità nazionale. Nel far questo, ha espresso il suo sostegno alle nuove forze emergenti, chiedendo che le milizie e i poteri militari appartenenti alla fase di transizione vengano riconvertite in un esercito regolare. Una posizione questa non condivisa da altri Paesi europei, come la Francia, che si è affiancata al Presidenza egiziano Al-Sisi nel sostenere sulla scena internazionale l'opera del Generale Haftar. Un timido tentativo questo di riparare al caos scatenato con i bombardamenti della Libia, sferrati solo a seguito di una campagna di falsità e di manipolazioni in violazione di una risoluzione ONU. 

In questo clima, in cui la diplomazia sta giocando un ruolo molto delicato e difficile,  i media sono costantemente bombardati da speculazioni e false notizie diramate attraverso i social network da fonti anonime, nel tentativo di inquinare il panorama informativo. Sono in gioco società di comunicazione la cui funzione è proprio quella di spacciare notizie false, utilizzando analisti e centri studio, che media e giornali accettano come vere o plausibili, assecondando una vera e propria macchina della disinformazione. La stampa italiana, da oltre un anno,  si è fatta ripetutamente beffare sulla questione della Libia, pubblicando notizie false che sono puntualmente smentibili, perché prive di contenuto e di evidenze sostanziali.  

18 aprile 2016

Fermato dirigente italiano A2A: EPCG come KAP?


Giunge del tutto inaspettata la notizia dell'arresto dell'ex direttore finanziario dell'Elektroprivreda Crne Gore (EPCG), Flavio Bianco, nell'ambito dell'inchiesta della Procura speciale sui contratti di consulenza sottoscritti a favore dell'A2A senza rispettare le procedure di tender. Tra gli indagati figurano anche Enrico Malerba, ex direttore esecutivo dell'EPCG, e Massimo Sali, ex direttore finanziario, entrambi recatisi in Italia. Interrogato lo scorso venerdì 15 aprile, Flavio Bianco è stato posto in custodia cautelare per 72 ore dopo l'interrogatorio, misura poi prorogata per altri 30 giorni, per evitare l'inquinamento di prove e che possa lasciare il Paese. Bianco aveva rassegnato le sue dimissioni dalla dirigenza dell'EPCG appena pochi giorni prima, precisamente l'11 aprile, per andare a ricoprire un altro incarico presso la municipalizzata di Milano.



Va detto che le dinamiche dell'arresto, come dell'intera inchiesta, non sono del tutto chiare, e sembrano rimarcare le stesse procedure che hanno portato al fermo dell'ex direttore finanziario della KAP, Dmitrij Potrubach, condotto fuori dal suo ufficio in manetta, sotto gli obiettivi di media e giornali. Oggi il dirigente della Central European Aluminium. Company (CEAC) ha avviato una causa contro la Repubblica del Montenegro per il procedimento illegittimo e infondato perpetrato nei suoi confronti, a seguito dell'espropriazione di KAP. Potrubach chiede un risarcimento di circa 5 milioni di euro, per i danni in termini di mancati guadagni e di pregiudizio della sua immagine.

Questa causa è l'ulteriore dimostrazione dell’assenza dello stato di diritto in un Paese candidato all’adesione nell'UE e nella NATO, nonché l'ennesimo caso controverso di fallimento di investimenti esteri, che si traducono nel drammatico epilogo di arresti e arbitrati. Il Montenegro si conferma essere uno Stato inadeguato ad accogliere progetti di cooperazione e di investimento, e per quanto continui ad attirare nuovi capitali, accumula sempre nuovi processi giudiziari, nella maggior parte dei casi ai danni degli investitori. Di contro, per quanto riguarda il particolare caso della A2A, tale arresto costituisce un atto molto grave, che apre una faglia incolmabile nei rapporti di cooperazione energetica tra le due società e i due Stati, con un inevitabile impatto alla stessa solidità del accordo di investimento e di gestione della EPCG. Identici interrogativi possono essere sollevati in relazione al progetto del cavo di interconnessione della Terna Tivat-Pescara, che insiste in un'area marittima contesa tra la Croazia e il Montenegro, ossia la penisola di Prevlaka, e per il quale non vi è ancora alcuna prospettiva di risoluzione.

http://osservatorioitaliano.org/read.php?id=147491

24 marzo 2016

Attentati a Bruxelles: il doppio gioco dell'Occidente

Gli eventi di Bruxelles, al di là di ogni speculazione fine a se stessa, pongono dei seri interrogativi sulla efficacia del sistema di intelligence europeo, che si è rivelato fallace e per certi versi scoperto. Lacune che oggi si cerca di nascondere riversando tutta la responsabilità sul Belgio, come se fosse l’unico responsabile a dover garantire la sicurezza della capitale europea, che è anche sede delle più grandi istituzioni euro-atlantiche. Non viene infatti considerato che il sistema biometrico europeo, ed in particolare quello francese associato al sistema delle cosiddette “fiches”, ha dei grandi bug all’interno, per cui questi “cittadini sospetti” sono in grado di circolare tranquillamente tra uno Stato all’altro attraverso gli aeroporti senza essere identificati. E’ anche chiaro che la rimozione dello Schengen non sarà di grande aiuto, considerando che esiste già un problema nei controlli biometrici. 

Esiste poi un altro grave dilemma connesso alla “libera commercializzazione di armi” nei porti franchi europei – come Anversa, Amburgo, Rotterdam e Marsiglia – verso i teatri di guerra, senza che questo scandalizzi troppo le autorità europee, che rilasciano senza molti controlli le licenze alle grandi società di armamenti. Se si prende in considerazione il caso della Tunisia, coacervo delle cellule Daesh nel Mediterraneo, si può evidenziare come i carichi di armi più sospetti giungevano proprio dall’Europa. Tra i casi più recenti, e anche più interessanti, vi rientra quello del sequestro a Nabeul di un container di armi destinato ad un imprenditore belga (contenente fucili, munizioni da guerra, droni, attrezzatura subacquea), spacciate come “armi sportive”. Secondo fonti delle Dogane tunisine, dal 2013 sono giunti in Tunisia quasi 90 spedizioni sospette di società europee, in particolare belghe e francesi. 

Caso ancora più eclatante, e anche di maggiore interesse all’indomani degli esplosivi “con bulloni” a Bruxelles, è quello di un carico sospetto giunto all’Aeroporto di Tunisi e proveniente dagli Stati Uniti. A lanciare l’allarme è stato un generale di brigata delle Dogane tunisine, parlando di un "pericolo imminente" dopo la scoperta di un carico contenente esplosivo, detonatori, pentole a pressione riempite con viti e bulloni, cinture esplosive e granate. Il generale tunisino ha anche denunciato l’irresponsabilità delle autorità che hanno nascosto l’evento durante un periodo di "piena emergenza". Il container rientrava in una spedizione cargo partita dalla California (Stati Uniti) e destinata alla Tunisia, facendo scalo all'aeroporto di Charles de Gaulle. Questa "merce" è stata inviata in due viaggi (la prima il 21 gennaio di 270 kg, e il secondo il 23 gennaio di 1500 kg). A scoprire casualmente le “pentole cariche di bulloni” erano stati i dipendenti della FedEx che smistavano il carico all’Aeroporto di Parigi e, avvisate la direzione della società, hanno appreso che “si trattava di dispositivi esplosivi fittizi, destinati all’Ambasciata Americana per delle esercitazioni militari” . Di contro, l'Ambasciata degli Stati Uniti ha negato qualsiasi coinvolgimento nel caso, e quindi anche che il carico di detonatori fosse destinato ad essa. L’episodio, nonostante la gravità, non è stato oggetto di indagine da parte della Direzione delle dogane centrale o del Ministero degli Interni non hanno avviato alcuna inchiesta. 

E’ lecito domandarsi il perché di questi “doppi-standard”, considerando che basta molto meno per far scattare un raid contro sospette cellule senza alcuna prova. Giocare sull’ambiguità dinanzi a temi così delicati non fa che crescere dubbi sulla lealtà dell’Alleanza atlantica, soprattutto quando Nicolas Sarkozy e David Cameron hanno programmato il bombardamento della Libia, mentre firmavano lettere di concessione per gas e uranio. Per ottenere il sostegno di Israele, venne anche fatto credere che la “Nuova Libia” avrebbe riconosciuto lo Stato israeliano, per divenire quindi il primo Paese arabo ad accettare tale riconoscimento. Oggi, mentre l’Italia chiede di investire più fondi nelle periferie e della formazione culturale degli stranieri, ci troviamo ancora una volta dinanzi ad uno scenario bellico che non lascia scampo. Infatti, Francia e Inghilterra, attraverso i vari Comitati d’affari, hanno promesso alle tribù la creazione di uno Stato Tuareg, per cercare di recuperare le concessioni perse dopo la rivoluzione del 2011. Questa diplomazia parallela aumenta inevitabilmente le divisioni nell’Alleanza, anche perché - forse bisogna ricordarlo a qualcuno – il Tribunale dell’Aja ancora esiste e aspetta chi ha commesso gravi crimini. 

Ad ogni modo, vorremmo invitare gli addetti ai lavori a riflettere su quanto accaduto a Bruxelles, nella speranza che qualcosa si fermi e non degeneri in uno scenario che nessuno vuole. Se una cellula terroristica decide di colpire una “capitale storica” per il transito di ogni tipo di commercio e strategico rifugio per le dissidenze, allora vuol dire che i sistemi di copertura sono davvero saltati, e che qualcuno all’interno dell’Alleanza sta facendo un gioco sporco.