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30 gennaio 2009

Una bad bank per nascondere il marcio della finanza


Al centro del dibattito del World Economic Forum di Davos ritorna la crisi globale finanziaria, definita ben più lunga e pericolosa della grande depressione. Tra le proposte avanzate, quella che ha attirato maggiormente l’attenzione è sicuramente la "bad bank", ossia delle entità bancarie che dovrebbero eliminare dalle banche gli "elementi tossici". Si tratta di costruire un sistema bancario "parallelo" da mettere in quarantena per dare il tempo ai mercati di metabolizzare la crisi. (Foto: George Soros, sostenitore della bad bank)

La riunione del World Economic Forum di Davos sta scorrendo con l'assenza di funzionari americani dell’amministrazione di Obama, che in questo momento sta cercando di mettere insieme un piano di salvataggio da 835 miliardi di dollari. E’ un vero peccato, tuttavia, che non ci siano, in quanto la tavola rotonda ha intenzione di creare una commissione che analizzerà le 36 ore successive al crollo di banca statunitense Lehman Brothers a settembre. La volatilità del mercato che ne è derivata, nonostante l'intervento dei Governi ha dimostrato che le misure adottate non sono state poi abbastanza, tale che si fanno sempre più strada delle misure alternative. La proposta che ha attirato maggiormente l’attenzione è quella di creare delle "bad bank", ossia delle entità bancarie che dovrebbero eliminare dalle banche gli "elementi tossici". La Svizzera è stata la prima ad avanzare tale ipotesi, con la creazione, da parte della Banca nazionale svizzera (BNS) di una banca-veicolo in cui mettere uno stock di titoli ed attività "di rifiuto" per 60 miliardi di franchi svizzeri. Allo stesso modo, l'amministrazione Obama sta seriamente prendendo in considerazione la creazione di una banca controllata dallo Stato per rimuovere le attività "tossiche" dai conti delle istituzioni finanziarie degli Stati Uniti. Richard Parsons, il nuovo Presidente del CdA di Citigroup ha infatti incontrato con il Presidente degli Stati Uniti mercoledì, discutendo proprio la possibilità di istituire una banca che potrebbe assumere migliaia di miliardi di dollari di attività bancarie pericolose, o che comunque nessuno vuole.

La "bad bank" potrebbe essere gestita dalla Commissione Federale di garanzia dei depositi bancari (FDIC), come ente governativo che da anni gestisce i fallimenti bancari. Lo staff di Obama ha sostenuto che questa sarebbe una misura obbligata per "ripristinare la fiducia nei mercati finanziari e rivitalizzare il sistema del credito richiesto al Governo ", eliminando dalle banche le loro attività tossiche e passare poi alla ricapitalizzazione. "Liberando i bilanci delle banche delle attività che potrebbero ammortizzare continuamente, è possibile ricreare la fiducia degli investitori privati che reinvestiranno capitale, come accaduto con successo in Svezia nel 1990 ", spiega Sheila Bair, Presidente della FDIC. Con l'acquisizione di beni tossici mediante uno scorporo, si potrebbe anche rinegoziare i mutui a rischio sui quali sono stati acquistati e rivenduti dei prodotti strutturati, ed evitare, al tempo stesso, un ulteriore deterioramento delle loro nuove voci. La FDIC potrebbe inoltre finanziare l'acquisto delle attività tossiche non solo con il denaro, ma anche mediante l'emissione di obbligazioni garantite dal fondo di emergenza creato dall’Amministrazione Bush per sostenere il mercato finanziario, il TARP. Le attività potrebbero essere mantenute fino a quando l'economia non migliora e si trovano le condizioni di liquidità nel mercato. In alternativa, la "bad bank" potrebbe finanziarsi chiedendo alle banche di dismettere alcune attività e smobilizzare capitale. Sono state prese in considerazione anche altre possibilità, come iniettare direttamente capitale nelle banche da parte degli azionisti, soluzione che non piace alle fondazioni in quanto sarebbe "un ulteriore rinvio della definizione della crisi". Allo stesso modo, come è stato fatto già per Citibank o Bank of America, lo Stato potrebbe dare una garanzia, raccogliendo le perdite delle banche per una certa quantità di beni tossici.

Occorre considerare però che le perdite nel sistema del credito potrebbero superare un totale di 2.000 miliardi di dollari, considerando inoltre che le banche hanno accertato meno della metà delle proprie perdite, e dunque potrebbe toccare una somma di 3.000 o 4.000 miliardi di dollari. Ricordiamo che lo scorso anno il Senato ha votato la costituzione di un Fondo per salvare il settore finanziario, il TARP (Troubled Assets Relief Program), pari circa a 700 miliardi di dollari. Circa 350 miliardi sono stati già utilizzati - o sprecati - per la ricapitalizzazione delle banche, mentre la seconda metà dei fondi disponibili, 50 miliardi di dollari potrebbero essere utilizzati per aiutare i proprietari ad evitare il sequestro delle loro case, mentre il resto è per le banche. Il nuovo Segretario del Tesoro, Tim Geithner, dovrà determinare il modo di utilizzare il resto del denaro e, soprattutto, convincere il Congresso a liberare risorse supplementari, che intanto chiedono una maggiore trasparenza nella gestione del Fondo. D’altro canto, pur escludendo del tutto una possibile nazionalizzazione del settore bancario, lo stato Americano dovrà comunque andare in soccorso di AIG, Fannie Mae e Freddie Mac, mentre detiene già il 6% di Bank of America e il 7,8% di Citigroup, tale che la parziale nazionalizzazione è inevitabile.
Ad ogni modo, il piano di salvataggio delle Banche in un certo senso è già fallito, tale che ormai si sta cercando di costruire un sistema bancario "parallelo" da mettere in quarantena per dare il tempo ai mercati di metabolizzare la crisi. In realtà, è come fare un condono degli errori del passato, omettendo ogni condanna del caso, e lasciando che il mercato finanziario continui a funzionare come ha sempre fatto. Sarebbe dunque questo il miracolo finanziario promesso da Obama? Un'opera di ingegneria finanziaria che va a nascondere le malefatte del passato, sopravvivere nel presente.

29 gennaio 2009

WEF di Davos: prove tecniche del nuovo ordine economico globale


Si era preannunciata come la conferenza per "uscire dalla crisi", ma si sta trasformando in un concilio multilaterale di discussione delle cause e dei reciproci errori compiuti in passato. Con 1.400 imprenditori provenienti da 96 paesi, 43 capi di Stato o di governo, 17 ministri delle finanze, governatori delle 19 banche centrali, quella di Davos è un' immensa tavola rotonda che ha come protagonisti i grandi veterani delle crisi economiche del passato, e gli illustri assenti della recessione globale del presente.

Si era preannunciata come la conferenza per "uscire dalla crisi", ma si sta trasformando in un concilio multilaterale di discussione delle cause e dei reciproci errori compiuti in passato, lanciando le prime idee di riforma strutturale del sistema economico. La 39esima edizione del 2009 del World Economic Forum di Davos , dal titolo "Un progetto post-crisi", vede la partecipazione di 1.400 imprenditori provenienti da 96 paesi, 43 capi di Stato o di governo, 17 ministri delle finanze, i governatori delle 19 banche centrali, così come centinaia di giornalisti. Una immensa tavola rotonda che ha come protagonisti i grandi veterani delle crisi economiche del passato, e gli illustri assenti della recessione globale del presente. Mancano i dirigenti dei gruppi bancari che sono scomparsi dopo il terremoto della crisi finanziaria, nonché delle istituzioni finanziarie americane, travolti dagli scandali di Wall Street, dei mutui subprimes e della crisi di liquidità . Cina e Russia presiedono il Forum con le loro lezioni di geopolitica economica, senza nascondersi dinanzi alle domande e agli attacchi più pungenti, forti della consapevolezza del ruolo che avranno qualora vi sarà un nuovo ordine mondiale economico. Ciò anche in considerazione del fatto che al miracolo della nuova amministrazione americana di Barack Obama non tutti credono, non potendo incidere da sola sul cambiamento strutturale di uno stato di crisi che è diffuso e diramato in ogni settore.

Come osservato da Joseph Stiglitz, economista e docente presso la Columbia University, "non si può fare peggio di quanto già fatto dalle banche. Il problema fondamentale è rappresentato dal fatto che il sistema è sbagliato, e non basta sostituire le persone o predisporre un team di esperti per risolvere il problema". Stiglitz ha senz’altro centrato il problema di fondo, ossia che non si potrà arginare la situazione gettando soldi in un pozzo senza fondo, tutto sarà vano non si avrà una reale presa di coscienza che il sistema economico è cambiato, e in quanto tale ha bisogno di regole basate su diversi presupposti. È quello che chiede infatti la Cina, che punta il dito contro quei Paesi "che hanno adottato un modello di sviluppo insostenibile caratterizzato da un debole risparmio su un lungo periodo e un forte consumo". Per il Premier cinese Wen Jiabao, il nuovo ordine economico mondiale passa inevitabilmente per una riforma dei grandi istituti finanziari internazionali e una regolamentazione dei mercati capitali. Sulla riforma delle regole su cui si basa l’economia, interviene anche Vladimir Putin chiedendo che Europa e Stati Uniti attuino una politica monetaria più aperta ed equilibrata, nel rispetto delle norme internazionali della macroeconomica e della disciplina finanziaria. E a tale proposito spinge per il ritorno ai vecchi principi economici che si basano sull'integrazione regionale delle valute, contro un'economia mondiale troppo dipendente dal dollaro. "Gli operatori occidentali dovrebbero abbandonare l'ideologia del colonialismo nelle relazioni bilaterali - afferma Putin spiegando - il mondo si è globalizzato ed è oggi interdipendente. Se vogliamo mantenere rapporti civili, è necessario formulare i principi fin dall'inizio". Putin chiede dunque una riforma delle norme di emissione della moneta, e così di regolamento degli scambi, che si basi sul concetto di "valore fondamentale" delle attività, "basato sulla capacità di un'impresa di generare valore aggiunto e non su mere considerazioni soggettive", e dunque sull’economia reale. Noi aggiungiamo a tale parole "sull’economia reale di nuova generazione".

Occorre infatti considerare che sta affondando innanzitutto quell'economia reale, che utilizza fonti di energia e tecnologie scoperte agli inizi del secolo, ossia quella siderurgica, petrolifera e automobilistica, ragion per cui occorre introdurre cicli produttivi con energia sostenibile e prodotti innovativi che contribuiscano al progresso economico sostanziale. Allo stesso modo, sta cambiando anche l’economia immateriale, quella dei servizi, a cominciare da quelli finanziari, sino a quelli dell’informazione e della comunicazione, proprio in relazione all’introduzione di nuove piattaforme cibernetiche. È ormai chiaro che la crisi ha solo consentito la riconfigurazione degli assetti bancari, con concentrazioni e fusioni che hanno racchiuso il potere economico nelle mai di entità private, ma anche di fondi sovrani e Governi , come il caso di Russia e Cina, nonché alcun Paesi arabi: il mercato bancario pian piano si assesterà basandosi su nuove regole, che lo renderanno ancora più inattaccabile con l’introduzione di nuove tecniche per lo scambio di dati ed informazioni.
Una simile dinamica l’avremo nel settore dell’informatica e dell’informazione. Il caso di Microsoft è esemplare in quanto - come per Ford, GM e Crysler - ha costruito il suo monopolio su una tecnologia e una fonte di informazione che ormai è fuori mercato, e l’avvento di nuovi scenari e nuove esigenze decreteranno la sua fine. I software - come per le vecchie auto a benzina - non sono più dei beni indispensabili, in quanto sono perfettamente sostituiti dalla rete, che fornisce tutti gli strumenti richiesti anche attraverso un terminale che usa un unico programma necessario solamente ad accedere al web e a navigare. Microsoft dovrà solo sperare nella possibilità di scalare Yahoo per mettere le mani su un motore di ricerca, ed impedire che una qualsiasi joint-venture tra Google e un produttore di software possa mettere fine all’esistenza del concetto di "sistema operativo" stabilito da Windows. La comunicazione cibernetica farà scomparire la netta distinzione tra utente e macchina, e così l’utente diventerà automatizzato senza aver più bisogno di interfacce "umane" o di processi lunghi, mentre la macchina non avrà più bisogno dell’intervento umano. Questo sistema necessità dell’abbandono della vecchia energia, delle vecchie regole, delle vecchia mentalità: tutto questo non avverrà senza creare disoccupazione, crisi strutturali, recessioni e guerre. Sarebbe dunque preferibile che i capi di Stato si siedano davvero ad una tavola rotonda e concordino le nuove regole per aiutare il sistema economico a cambiare, senza tanti stravolgimenti.

28 gennaio 2009

Fondazioni come banche e molto di più


Le Fondazioni bancarie non possono godere di agevolazioni fiscali perché non equiparabili a degli enti non profit, ma a vere e proprie banche. Questa la sentenza della Cassazione che stabilisce un importante precedente per la definizione giuridica, anche se per il momento solo a fini fiscali, delle ex casse di risparmio privatizzate.

La Cassazione si è finalmente pronunciata sulla definizione giuridica "ai fini fiscali" delle Fondazioni bancarie, ossia le Casse di risparmio privatizzate dalla legge Amato del 1990 e dalla riforma Ciampi del 1999. Viene così stabilito che tali entità non possono godere di agevolazioni fiscali perché non equiparabili a degli enti non profit, essendo in realtà delle vere e proprie banche. Trova finalmente applicazione quel principio stabilito dalla legge italiana secondo cui esiste "una presunzione" dell'esercizio dell'attività di banca per coloro che sono in grado di influire sull'attività dell’istituto creditizio in relazione alla loro partecipazione. In particolare, per la Cassazione tale presunzione può essere superata soltanto se si dimostrasse che tali enti abbiano privilegiato gli scopi sociali, rispetto al governo delle Banche, che dovrebbe essere solo marginale, cosa che in realtà non è. Eppure la riforma Ciampi aveva previsto che le ex Casse di Risparmio, per beneficiare delle agevolazioni, dovevano dismettere le partecipazioni di controllo nelle banche per divenire a tutti gli effetti enti non commerciali, e dovevano svolgere fini di interesse pubblico e di utilità sociale, in maniera prevalente rispetto all’attività bancaria. Evidentemente la legge è stata elusa senza problemi, alla luce del sole, facendo leva sulla lentezza del sistema giuridico italiano e sul sostegno della classe politica, che si è vista bene di alzare la mano contro le fondazioni.

Ad ogni modo, sebbene la decisione riguardi solo un contenzioso tra il Fisco e le Fondazioni, e dunque sulla possibilità di concedere le agevolazioni fiscali che spettano alle entità che svolgono delle attività di assistenza sociale o di beneficenza, rappresenta comunque una sentenza "storica" perché sdogana dalle fondazioni bancarie quell’etichetta perbenista di "entità di interesse sociale". La Cassazione ha dato loro la definizione che più si s'addice, ossia quella di entità che controllano le banche, e dunque esercitano un’attività finanziaria-speculativa che non ha nulla a che vedere con la devoluzione di fondi per la ricerca o la beneficenza. Per tale motivo la sentenza non avrà solo un impatto sul trattamento fiscale delle fondazioni - negando loro l’esenzione della ritenuta sui dividendi o un'imposta ridotta del 50% - ma anche in termini economici e finanziari, in quanto è molto breve il passo nei confronti della ridefinizione dei loro statuti. Ovviamente ci chiediamo cosa avrà spinto lo Stato italiano a chiedere alla Cassazione una sentenza di questo tipo. Innanzitutto non sono da sottovalutare le pressioni dell’Unione Europea che chiedono un adeguamento alle regole di concorrenza e trasparenza vigenti sul mercato comunitario, dove la struttura delle Banche è diversa, presentando fondazioni equiparate a fondi di investimento, fondi sovrani istituzionalizzati, holding e tesorerie, e comunque entità giuridiche che appartengono alla sfera finanziaria.

In secondo luogo, possiamo inquadrare questa decisione nell’ambito della riorganizzazione bancaria all’indomani della crisi che ha colpito soprattutto Banche e alta finanza. In questo contesto di destabilizzazione, le fondazioni bancarie italiane rappresentano un caso sui generis, spesso una realtà protetta e ovattata, che consente loro di non esporsi anche in caso di fallimento della banca che controllano. Questo perche la fondazione non può fallire, può soltanto essere inglobata in un’altra, o andare a costituire un fondo a sostegno di altre fondazioni. Entità, dunque, che possono muoversi liberamente e fungere da punto di accumulazione di liquidità, da reinvestire continuamente. È ovvio che, da questo punto di vista, il loro potere interessa a molti, soprattutto alle Banche estere che cercano di entrare nel sistema italiano, avendo ormai intuito che è difficile prendere il controllo di una banca italiana senza avere il controllo della fondazione che ha alle spalle. Per cui, se da una parte, lo scardinamento del tessuto delle fondazioni può essere un segnale positivo per ridare allo Stato italiano il controllo reale del sistema bancario, dall’altra può aprire nuovi scenari di totale stravolgimento della nostra economia che dovrà adeguarsi ad un nuovo tipo di colonizzazione estera. Dunque, siamo ben lontani dal definire questa sentenza una vittoria di "giustizia sociale", essendo solo un sintomo di questa economia globale che sta cambiando, dove rischiano il fallimento sia i giganti del software sia le industrie automobilistiche, dove le banche riducono il personale ma aumentano gli sportelli, ed infine dove l’informatica e la cibernetica sono un fenomeno sociale.

27 gennaio 2009

Controversia Croazia-Slovenia-Italia: il passato che ritorna


La crisi tra Croazia e Slovenia rischia di protrarsi ancora a lungo, dopo che ha affondato le sue ragioni nella polvere degli archivi storici e aver coinvolto anche l'Italia.

Molto di quanto si è detto negli ultimi giorni ha contribuito a provocare uno scandalo diplomatico tra Croazia e Slovenia, coinvolgendo anche l’Italia e così l’intera Comunità Europea. La crisi dei confini tra i due Paesi ha decretato il blocco da parte della Slovenia dell'ingresso nell'UE di Zagabria, inducendo di risposta il blocco delle merci slovene sul mercato croato, le dichiarazioni azzardate del Presidente Stipe Mesic, nonchè i tanti difficili discorsi che hanno affondato le loro ragioni nella polvere degli archivi storici sulla reale linea di demarcazione tra Croazia, Slovenia e Italia, contribuendo così a complicare notevolmente la situazione. Dopo aver rifiutato la proposta del Presidente Mesic di sottoporre la questione alla Corte di Giustizia Internazionale, il Presidente Danilo Turk si è pronunciato sull’attuale situazione dell’Italia, e ha sottolineato che “a livello politico è stato già raggiunto un alto grado di riconciliazione tra Slovenia e Italia, perchè questi Paesi sono già membri dell'UE”, ma , come aggiunto Turk, la questione va ancora risolta a livello etico. Secondo il Presidente sloveno, “l'Italia dovrà confrontarsi con i crimini del fascismo, di un sistema totalitario che aveva alla base le sofferenze che il popolo sloveno ha subito in quel periodo”. Questi ha così sottolineato che numerosi crimini contro il popolo sloveno, sono avvenuti proprio durante la Seconda Guerra Mondiale, periodo nel quale tantissime persone sono state mandate nei campi di concentramento sull'Isola di Rab e Gonars. “Molti di quei crimini non sono ancora stati processati”, ricorda Turk, dicendosi convinto che “solo con il rispetto della minoranza slovena in Italia, si potrà risolvere quanto accaduto in passato”, e che “solo in quel modo si potrà parlare di riconciliazione e di perdono”.

Dobbiamo, a questo punto, ricordare che il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha risposto allo stesso modo in occasione delle celebrazioni della ricorrenza delle vittime delle foibe, dichiarando che “la pulizia etnica in Dalmazia e Istria contro il popolo italiano, è stata mossa da un moto di odio e furia sanguinaria, e un disegno annessionistico slavo che prevalse innanzitutto nel trattato di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica”. Allora la Slovenia non ha risposto a tale dichiarazione, ma si è pronunciato il Presidente Mesic - sostenitore a Zagabria di uno schieramento di centro-sinistra - accusando il Presidente italiano di aver usato parole razziste nei confronti dei croati. Oggi, dopo un anno, alle parole di Napolitano risponde anche Danilo Turk, mettendosi nella posizione “intermediario” nel diverbio tra Croazia e Italia, ma con un ruolo di “avvocato del diavolo”.
Continua ad affermare che la minoranza slovena in Italia non viene sufficientemente rispettata, dopo la decisione del Governo italiano di abbassare i fondi per l'educazione, tra cui anche quelli per le scuole speciali per le minoranze. Allora il malcontento della popolazione è stato evidente, quando gli alunni di un istituto tecnico che si sono barricati all’interno di una scuola che era chiusa per mancanza di fondi, dopo che era stata licenziata la direttrice di una scuola che alla sua inaugurazione, aveva tagliato il nastro con il tricolore della Slovenia. Continua ad attaccare l'Italia per aver ridotto i fondi all’istruzione, ma anche al teatro sloveno a Trieste. Probabilmente, non è stata raggiunta nessuna conciliazione, in nome della “fratellanza europea”, come invece vogliono dare ad intendere.
L'ultima ventata di crisi, nella già grave situazione tra i due Stati, proviene dalle dichiarazioni del presidente Mesic, ospite di una trasmissione per HRT TV, per un confronto con il sindaco di Lubiana Zoran Jankovic. L’esito del colloquio non ha dato nessuna risoluzione ottimistica, considerando come i politici si contraddicono continuamente, parlando di ciò che piace sentire al popolo. È difficile capire anche cosa vuole ottenere questa politica assurda, considerando che un giorno si dichiara guerra e l’altro “tolleranza e pacificazione”, come afferma il Presidente Mesic nella trasmissione di domenica. Respingendo ogni attacco per la sua pungente provocazione a proposito della “liberazione della Slovenia da parte dei partigiani croati”, Mesic afferma che questa dichiarazione altro non era che un ‘licenza poetica’.

Esiste un proverbio che dice «ditemi la colpa di qualcuno, e io troverò una ragione per impiccarlo», in altre parole vuol dire che qualunque cosa presa al di fuori di un determinato contesto, potrebbe trovare qualsiasi significato. Quella licenza poetica spiega che sloveni e croati hanno collaborato insieme durante la Seconda Guerra Mondiale. Se non ci fossero stati i partigiani che liberarono l'Istria, sicuramente la mappa non sarebbe stata conformata come lo è ora. Noi abbiamo collaborato con gli sloveni sia nel periodo austro-ungarico, sia nella Seconda Guerra Mondiale, sia nella guerra in Jugoslavia, ma anche nel periodo in cui abbiamo entrambi avuto la possibilità di essere indipendenti con l'atto costitutivo del 1974. Siamo giunti alla conclusione che possiamo risolvere ogni questione soltanto se siamo uniti. Ora è davvero difficile arrivare a una risoluzione razionale, nella quale nessuno sa come sia nato il problema. Alcuni sostengono che si debba attuare un processo di riconciliazione. Ma mi chiedo con chi? Con gli sloveni? Io non ho litigato con nessuno”, afferma Mesic, dimenticando così di aver comunque contribuito alla situazione di crisi, scatenando un labirinto di parole e provocazioni.

Per me questo non è un conflitto serio – ha continuato Mesic – ognuno di noi deve trovare la soluzione di questa situazione, dobbiamo trovare la riconciliazione”, ribadendo la grande contraddizione della sua 'licenza poetica'. Inoltre, nel tentativo di trovare altri colpevoli, che non siano direttamente o indirettamente coinvolti con questa situazione, non poteva non ricorrere alla sua grande ossessione per Milosevic, così continua: “La nostra collaborazione tra Croazia e Slovenia è lunga e quando si parlava dell'indipendenza della Croazia mi ha aiutato Bozo Dimnik, per farmi arrivare fino ad Hans Dietrich Guensher. Ci siamo incontrati tre volte, e in quell’occasione gli ho spiegato che la guerra in Slovenia sarà corta, in Croazia sanguinosa, in Bosnia Erzegovina brutale e arriverà fino in Serbia, bagnando nel sangue Belgrado, perchè l'intento di Milosevic era quello di costruire una grande Serbia etnicamente pulita. Il suo scopo era distruggere tutto ciò che non rappresentavano i serbi, e questo che ci ha portato alla catastrofe”. Non sappiamo quale sia il legame tra Milosevic e l’ultima guerra, con la controversia con la Slovenia, ma ormai anche se i serbi non sono coinvolti occorre sempre citarli per rendere più credibili le proprie ragioni. In realtà è inutile deviare la situazione parlando della Serbia, ben sapendo che arriverà il giorno in cui i serbi della Krajina chiederanno indietro loro terre. Lo stesso accadrà con Serbia, Montenegro e Bosnia, e anche allora, tra i colpevoli vi sarà ancora una volta Milosevic.

Evidentemente Mesic non si rende conto che la situazione rischia di protrarsi all’infinito, e forse la Croazia dovrà aspettare ancora un po' di tempo per far maturare la sua democrazia, della quale nemmeno nessuno dei cittadini dei Paesi si sene sicuro. Il torneo internazionale di pallamano ha dimostrato come continua ad incombere una minaccia continua contro i giocatori serbi, dopo l’attentato dinamitardo presso l’albergo in cui risiedevano, o la contestazione per la bandiera serba nella piazza di Zara, e ancora un tifoso macedone picchiato e una bandiera bruciata a Zagabria. Sono tutti fatti che la Croazia deve cancellare per poter uscire dal suo passato nero ed entrare nel futuro dell'UE. Questo modo di gestire le questioni diplomatiche, stravolgendo completamente i fatti, può avere credibilità solo nei Balcani ma non nell’UE. Altrettanto ridicola è la mossa diplomatica del Premier croato Ivo Sanader per sbloccare l’impasse della disputa territoriale tra Croazia e Slovenia, invitando il suo omologo sloveno Borut Pahor a seguire una partita dei mondiali di pallamano in corso in Croazia. L’Unione Europea, da parte sua, ipotizza la possibilità di intavolare delle trattative dirette da un consiglio composto da tre membri guidato da Martti Ahtisaari, insieme all'avvocato francese esperto di diritto internazionale Robert Badinter, e da un tecnico. Il leader del partito SNS Zmago Jelincic è contrario a qualsiasi mandatario, sottolineando che sia Ahtisaari sia Badinter tendono a difendere la Croazia e non lo Slovenia. Mentre Ahtisaari viene definito come un uomo “pagato” dall'America, Baditer per gli sloveni sembra essere tornato “sul luogo del delitto”, considerando che proprio lui è stato a capo della Commissione UE, dal 1991 fino al 1993, quando vennero imposte le 15 direttive per la frantumazione della Jugoslavia. Allora Badinter affermò che “la Jugoslavia è stata oggetto di un processo di frantumazione”, non come affermavano Serbia e Macedonia, parlando di “processo di separazione delle repubbliche”. La Commissione propose di riconoscere la Slovenia come Stato indipendente mantenendo i confini delle repubbliche, i quali non possono essere modificati se non esiste un accordo vero e proprio, essendo “protetti dalla legge internazionale”. Da tale inciso, non era difficile intuire che i due Stati si sarebbero trovati, prima o poi, a dover affrontare questo dilemma, ma ovviamente a qualcuno fa comodo che i conflitti balcanici continuino anche in futuro, per rendere la regione continuamente schiava della politica internazionale, di padroni come Ahtisaari, Badinter o gli Alti Rappresentanti della Comunità Internazionale. A qualcuno fa comodo anche coinvolgere altri Stati, come l'Italia, per strumentalizzare gli eventi del passato a favore delle controversie attuali.

Biljana Vukicevic

Su tale tema, Rinascita Balcanica ha contattato l’avvocato Jonathan Levy, esperto di diritto internazionale, membro della squadra legale operante presso il Tribunale Internazionale dell’Aja nonché del team di accusa del Caso Alperin.

Cosa pensa, avvocato Levy, del conflitto tra Croazia e Slovenia?
La Croazia sicuramente non dovrebbe essere riconosciuta come membro dell'UE fin quando non risolve le controversie ereditate dal regime fascista croato della Seconda Guerra mondiale . In una situazione in cui agisce in maniera testarda, la Croazia dimostra che non rappresenta un vero candidato per l’UE. Dovrebbero prima chiarire le incombenze del passato, soprattutto la questione delle terre della Krajina e i crimini degli Ustasha, per poi aspettare di essere accettata come membro comunitario.

La Slovenia ha deciso di imporre il veto contro l’ingresso della Croazia all’interno dell’UE come contromisura per risolvere i propri problemi di confine. Crede che la Croazia risolverà allo stesso modo le sue controversie con i serbi della Kajina?
Questa è un'ottima domanda! Qualora la Croazia entrerà in Europa prima della Serbia, potrà usare il veto allo stesso modo per punire la Serbia? Essendo anche Belgrado un candidato per l’UE, è necessario includere anche la Krajina tra le controversie bilaterali, e prima che gli Stati possano entrare in UE.
Cosa accade con il caso dei serbi di Krajina?
I serbi della Krajina continuano a rivendicare i propri diritti contro la Croazia, come le case e le proprietà espropriate dai francescani. Purtroppo, il Governo serbo non presta molta attenzione alla Krajina in questo momento

La Croazia ha chiesto un arbitraggio presso la Corte di Giustizia Internazionale (CIJ) a L’Aja. Ritiene che il tribunale sia in grado di risolvere questo caso, o potrebbe rientrare nelle ingerenze di qualche altro tribunale?
Credo che un arbitraggio ad hoc possa consentire di raggiungere la soluzione migliore e offrire un nuovo inizio. Il mio consiglio potrebbe essere quello di effettuare un arbitraggio a Mosca , Ginevra, o Atene, tutte soluzioni da preferire a L’Aja, perché è divenuto ormai un tribunale assolutamente contrario ai serbi, nonché un immagine dello Stato olandese.

La controversia dei confini ha coinvolto anche l’Italia, rimettendo in discussione il passato fascista e i crimini compiuti in Dalmazia e Istria da parte dei partigiani croati. Lei crede che questo sia un buon periodo per fare un passo avanti nel caso Alperin?
L’Accordo di pace del 1947 è un argomento di difesa per il caso Alperin contro i francescani. La. Corte USA non ha ritenuto l'Accordo del '47 come una questione chiusa. Allo stesso modo, anche la Corte italiana non considera come archiviato questo caso, in quanto la Germania non ha ancora risposto alle accuse del caso Civitella, che è ora all’esame della Corte di Giustizia Internazionale.

B.V.

26 gennaio 2009

Il traffico di armi tra il Sigurimi e la Camorra


Con l'apertura dei dossier del regime comunista, vengono portati alla luce e pubblicati i documenti che dimostrano i rapporti ventennali tra la Camorra napoletana e il Sigurimi. Questi gestirono insieme il traffico degli armamenti militari, di armi contro mezzi blindati e di armi automatiche adatte alle guerriglie urbane. I rapporti con la Camorra ebbero un raggio d'azione molto ampio, in quanto riuscì occultare la vendita di armi in tutto il Mediterraneo con il traffico di sigarette e di esseri umani.

Con l’apertura dei dossier segreti del Comunismo, cominciano a venire alla luce i primi scioccanti retroscena dello sviluppo delle mafie all’interno del Mediterraneo, e dei loro legali con i servizi segreti degli Stati. I primi documenti segreti riguardano l’esistenza di forti legami tra le forze di sicurezza del regime comunista albanese e la mafia napoletana, che si sono protratti per più di 20 anni. I fascicoli svelano infatti come furono prodotti e trafficati mezzi anticarro e armi automatiche per la guerriglia urbana, ma soprattutto che fine ha fatto il bottino ottenuto dai traffici e come venivano organizzate le transazioni bancarie per il riciclaggio di denaro. Documenti autentici, dimostrano che la Camorra napoletana e la Sicurezza collaborarono per il traffico degli armamenti militari, di armi contro mezzi blindati (missili anticarro) e di armi automatiche adatte alle guerriglie urbane, ossia per la cosiddetta guerra popolare partigiana dei centri abitati. Il traffico di armi portò senz’altro ad una nuova escalation dei rapporti fra il Sigurimi e la Camorra, che ebbero inizio nella metà degli anni '60, e si interrompe dopo il suicidio misterioso del Primo Ministro Mehmet Shehu, per continuare fino all'autunno del 1991, due settimane prima dell'arrivo del contingente della missione “Pelikan” in Albania.

Alla fine del 1983, l`interruzione degli aiuti cinesi avvenuta cinque anni prima, stava causando seri problemi per le casse finanziarie della dittatura comunista, tale che per assicurare la stabilità della valuta albanese, la Sicurezza intraprende attività sempre più oscure, condannabili con il massimo della pena secondo le leggi internazionali. Si fece strada, così, il collegamento italiano con la mafia napoletana, costruito e gestito allo scopo di ottenere fondi sufficienti dal traffico di armi. Ogni operazione veniva coperta con frasi in codice di propaganda, come "La difesa della patria è un dovere sopra ogni dovere", "Combattere, pensare e lavorare come se fossimo accerchiati". Per i contatti diretti con la Camorra necessitavano dei veri e propri negoziatori, e per questo venne dato l'incarico ad uno dei rappresentanti della Sicurezza, l'ex autista dell’Ambasciata albanese nella Repubblica Araba Unita (U.A.R), inviato all' estero su ordine dell`ufficiale superiore del partito B.Angjeli, e con l’autorizzazione dell`organizzazione del PPSH (Partito del Lavoro dell` Albania). A rappresentare la "Camorra" era Michele Zaza, vecchio interlocutore della Sicurezza di Stato, conosciuto in tutto il bacino del Mediterraneo come il numero uno del contrabbando delle "bionde", come venivano chiamate a Napoli le sigarette di contrabbando. L`incontro avvenne in una piccola villa di Posillipo, del quale le autorità italiane ne vennero a conoscenza solo diversi anni più tardi, grazie alla dichiarazioni un po’ approssimate del pentito Pasquale Galasso, della zona del Vesuviano. Il capo degli investigatori della DIA ( Direzione Inchiesta Antimafia) di Salerno, Leonida Primicerio, definì questi contatti come molto problematici, tali da essere riportati ai servizi della intelligence italiana.

Secondo gli accordi, le operazioni di esportazione delle merci sarebbero state assicurate dalla parte italiana, mentre il trasporto sarebbe avvenuto sia attraverso mezzi italiani, che quelli albanesi, come ad esempio i mezzi di alto tonneggio della Flotta d’Esportazione, le navi della Flotta Commerciale e delle valigie diplomatiche. Uno dei boss della Camorra, con dimora provvisoria ad Herstal, Liege, Belgio, alla via “Rue Grand Puits 23”, assicurava la vendita di armi prodotte dall’Albania con una qualità tecnica quasi identica alle armi automatiche delle fabbriche belghe, nonché dei macchinari cechi, cinesi e svedesi (Bofors) . Dell’andamento delle negoziazioni, faceva rapporto ai capi della Sicurezza dello Stato, un agente dal nome di codice "Bibi", inviando un messaggio dalla sede della compagnia “Soko mar” in Svizzera, che fu poi ricevuto dalla compagnia "Albtrans", che copriva le operazioni del contrabbando internazionale organizzate dallo Stato. Per le comunicazioni vennero usate delle apparecchiature di interconnessione Telex, allora molto all’avanguardia. Tali strumenti di trasmissione, di produzione “Sagem”, vennero importante con valuta nazionale dalla Direzione Generale delle Ferrovie Albanesi, che fungeva da importatore legale.

Le negoziazioni dell`affare delle armi automatiche e dei missili anticarro, furono discusse segretamente dai più alti vertici della Sicurezza dello Stato e del Ministero della Difesa, informando Ramiz Alia, Prokop Murra e Hekuran Isai. Lo stesso Vice Ministro degli Affari Interni, Zylyftar Ramizi, nel marzo del 1984, emette un ordine, scritto a mano, sulle modalità e i prezzi per l’importazione delle armi automatiche e dei missili. Le direttive vennero trasmesse con telex in Italia, e i vertici della Camorra conclusero la transazione. Non sono state però trovate le prove che sia stato informato anche Enver Hoxha, il cui stato di salute si era molto aggravato, proprio nel periodo in cui venivano realizzate queste vendite. Le negoziazioni preliminari sono totalmente comprovate dalla documentazione e dalla corrispondenza del tempo, che mostra come venne organizzata sotto tutti gli aspetti - come il prezzo, le modalità di pagamento, il costo di trasporto, la quantità, l`imballaggio, e le misure di segretezza - dell`importazione di armi automatiche con calibro 9 mm e dei missili anticarro con raggio d’azione di 900 yard (800 metri) e una potenza perforante di 300 mm. I rappresentanti della "Camorra", dopo le ispezioni presso le fabbriche segrete militari a Cekin, Polican e la Fabbrica dell'Artiglieria, offrirono alla Sicurezza di Stato i loro quattro esperti, altamente qualificati, per monitorare la produzione in Albania delle armi. Le forze albanesi dovevano produrre fino a 200 mila pezzi in 3-4 anni, destinati sia all'esercito albanese che all'esportazione. A quel tempo, l'arsenale delle Forze Armate Albanesi erano di soli 250 mila AK-47 (kalashnikov) di produzione russa, cinese e albanese. I primi contingenti di armi automatiche e di vari tipi di missili pronti all'uso, dotati anche di mire ottiche, arrivarono in Albania dalla fabbrica produttrice in Belgio.

Così, più che servire alla difesa della patria socialista, le spedizioni di armi servirono all'arricchimento degli arsenali della "Camorra", per venderli al Paese vicino attraverso i canali del contrabbando degli scafi blu. Tale quantità di armamenti, poco dopo l`incidente con la famiglia Popa, giunsero a Napoli, e vennero stoccate in un edificio accanto al Campo Santo di Poggio Reale, in via “Santa Maria del Pianto”, per essere poi trasferiti nel deposito di un'officina metalmeccanica della zona di Afragola. È importante osservare che i profitti ottenuti dalla vendita delle armi, vennero usati per l`alta nomenclatura comunista e per il rafforzamento della dittatura del proletariato. Una parte della valuta forte fu usata per trasformare in blindata la "Mercedes" di Ramiz Alia e Adil Carcani, e per acquistare una “Range Rover”. La compagnia che si occupò del blindamento degli automezzi era tedesca, mentre i pagamenti avvennero attraverso una banca svizzera. Con la stessa quantità di valuta furono acquistati in Svezia degli apparecchi di rilevamento di radiazioni, definiti “dosimetri” o “Gayger counter”. Grazie all`intermediazione delle compagnie controllate dalla "Camorra", furono acquistate delle monete spagnole, night-sticks (manganelli di gomma), shock granades (granate che feriscono, ma non uccidono) ed agenti aggressivi chimici del tipo “incapacitating” (che tolgono la capacità di reagire). Questo arsenale venne dato in dotazione alla polizia e all'esercito albanese, con le relative istruzioni per il loro utilizzo contro le folle di dimostranti.

I missili vennero invece trafficati verso la Palestina, e in particolare venduti al Gruppo di George Habash, di una frazione libanese legata al leader locale Walid Jumblad. Al contrario, le mitragliatrici contraffatte dei Cekin di Gramsh (Albania) furono vendute ai terroristi dell’Irlanda del Nord, i corpi del reggimento per la difesa di Ulster, nella periferia dell`est della città di Londonderry. Il NCIS britannico (Servizio Nazionale di Investigazione Criminale) seguì le tracce delle armi fino a arrivare ad un camion ad alto tonneggio albanese, giunto in Inghilterra nel periodo in cui tra i due Paesi vi erano ancora dei rapporti, diplomatici per importare merci di comfort per conto di una compagnia statale albanese, con sede in via “4 Shkurti” a Tirana.
I rapporti con la Camorra ebbero, dunque, un raggio d'azione molto più ampio di una semplice operazione di "criminalità organizzata", in quanto venne studiata nei minimi dettagli e riuscì occultare la vendita di armi in tutto il Mediterraneo con il traffico di sigarette e di esseri umani. Ciò lascia sospettare che difficilmente la Camorra e il Sigurimi albanese abbiano agiti da soli, e che in realtà fossero parte di una rete criminale molto estesa, in cui hanno avuto un ruolo gli stessi servizi segreti deviati di molti Stati occidentali.

Rinascita Balcanica

23 gennaio 2009

Il grande bluff


L’insediamento alla Casa Bianca di Barack Obama viene salutato dagli amici e dai nemici del mondo intero come un "alleato" per la costruzione di nuove alleanze e per l’apertura di un dialogo. Tuttavia cambierà ben poco nelle linee strategiche di Washington, come dimostrato dalla presenza di Hillary Clinton come Segretario di Stato alla politica estera, o di Richard Holbrooke per la questione del Medioriente. Tutte vecchie conoscenze che dimostrano in grande bluff del nuovo Presidente "democratico", che è sulla buona strada per commettere ancora più errori del suo predecessore.

La cerimonia dell’insediamento alla Casa Bianca di Barack Obama ha scosso l’opinione pubblica globale, la quale ha salutato il nuovo Presidente come l’inizio del new deal americano e la risposta al desiderio di cambiamento. Molti sono stati gli interventi da Fidel Castro ad Ahmadinejad, dal Cremlino al Governo di Pechino, guardando al Presidente Obama come un "alleato" per la costruzione di nuove alleanze e per l’apertura di un dialogo su nuove basi. In realtà, riteniamo che cambierà ben poco nelle linee strategiche di Washington per quanto riguarda la politica estera, e in particolar modo per la regione centro-asiatica, tormentata da conflitti e da una grave instabilità politica. La stessa presenza di Hillary Clinton come Segretario di Stato alla politica estera, dà già l’idea di costante continuità del governo del partito democratico, e dà sicuramente un volto diverso al “nuovo governo” della “nuova amministrazione” obamista. Dopo essersi distinta nella sua campagna elettorale per le sue scioccanti dichiarazioni su eventi mai accaduti - come il suo arrivo a Tuzla, accolta da uno sciame di cecchini - Hillary Clinton giunge sul seggio della politica estera diplomatica americana, riprendendo dai vecchi discorsi cominciati sia da George Bush che dallo stesso Bill Clinton. Inoltre, per la gestione della crisi israeliana è stato nominato Richard Holbrooke, la vecchia volpe dei Balcani, e padre ideologico della Pace di Dayton, che ha portato alla fine della guerra in Bosnia e la creazione di uno Stato, ma anche del compromesso per ottenere l’uscita di scena di Karadzic, lo stesso accordo che dopo poco è stato rinnegato dall’Amministrazione americana.

Tante vecchie conoscenze che ritornano, come riecheggiano gli errori dell’amministrazione Clinton, per alcuni aspetti anche più gravi dell’uscente reggenza di Bush, avendo dato vita al finanziamento del terrorismo, per poi combatterlo negli anni successivi. L’ex Presidente Clinton è stato l’artefice non solo di un inaspettato intervento in Iraq, ma anche e soprattutto della guerra della ex Jugoslavia, che ha provocato un bombardamento nel cuore dell’Europa Orientale per far cadere le ultime colonne del comunismo di matrice sovietica. Allora la strategia della manipolazione e della finzione di massa - di cui il partito democratico di Clinton e dello stesso Obama sono veri maestri - portò alla creazione della propaganda del genocidio perpetrato dal Governo di Slobodan Milosevic contro le etnie non-serbe, per alimentare pian piano lo sfaldamento graduale dell’intera Jugoslavia. I media del mondo intero fecero una guerra spietata a Milosevic, che venne definito il "macellaio" dei Balcani, nascondendo dietro un’unica figura i crimini commessi dalle stesse bande che stavano nascendo sposando la causa indipendentista della propria regione. Bande che ben presto si sono trasformate in corpi paramilitari, finanziati dal traffico di droga e di armi, nonché dalle strutture parallele delle intelligence occidentali, le quali hanno reso possibile l’organizzazione di vere e proprie armate, all’interno delle quali venivano poi reclutati mercenari e guerriglieri dei movimenti fondamentalisti islamici. A quel punto, quello che era l’esercito nazionale jugoslavo divenne il nemico, mentre queste forze vennero considerate "eserciti di difesa" o di protezione per la popolazione.

Questa è la storia della Bosnia, della Croazia e del Kosovo, dove conflitti interetnici centenari sono scoppiati in una guerra sanguinosa e fratricida. A distanza di anni, tali eventi sono stati riportati dalle cronache dei media in maniera completamente diversa, senza mai lasciare che fossero ascoltati i veri protagonisti di quegli atroci eventi. Fu lo stesso Slobodan Milosevic che cercò di spiegare come l’interferenza di stati esteri avesse pregiudicato in maniera irreparabile la situazione interna del Paese, portando come esempio proprio lo storico incontro di Rambouillet, il cui fallimento decretò l’intervento della NATO. " Rambouillet è stato il motivo della guerra contro la Jugoslavia, o meglio dell’aggressione criminale - spiega il Presidente Slobodan Milosevic dinanzi al Tribunale Internazionale dell’Aja - ma io voglio dire qui in pubblico che non c’è stato nessuna trattativa a Rambouillet. La delegazione serba non si è nemmeno mai incontrata con quella albanese. La delegazione americana ha realizzato il suo programma, mentre quella albanese rilasciava le dichiarazioni: l’intero contenuto dell’accordo di Rambouillet, come doveva essere risultato della trattativa, è stato pubblicato dal quotidiano albanese “Koha Ditore” due giorni prima dell’inizio della trattativa. E questo è un dato di fatto facile da verificare, io stesso ho avuto quel quotidiano tra le mani, e tutti pensavamo si trattasse della propaganda albanese che scriveva "delle stupidaggini difficili persino da immaginare" - dichiara Milosevic alla Corte.

"Rambouillet è stato il pretesto per invadere la Yugoslavia, mentre Wesley Clark e Hashim Tachi si incontravano nei bar prendevano accordi. Ovviamente, loro sapevano già, a differenza di noi, cosa sta per accadere. Se gli americani volessero arrestare tutti coloro che hanno un collegamento con i terroristi, dovrebbero arrestare subito Wesley Clark, Madaleine Albright e altri diplomatici lì presenti. Per loro non c’è nemmeno l'ombra del sospetto che avessero dei legami con i terroristi. Nessuno dei Presidenti americani del passato ha fatto quello che ha fatto invece Clinton il “democratico”. Lui ha proclamato il genocidio come politica di Stato, ma ha detto che non ci saranno vittime. Ha dichiarato la distruzione di uno Stato indipendente e sovrano 676 volte più debole e a 10.000 Km distante dagli USA, come meta di una guerra "senza vittime". Oltretutto, tanto per rendere l’idea di quanto sia grande l’assurdità, la Yugoslavia non aveva nessun conflitto con nessuno di quegli stati, né territoriali né economici, né ha attaccato o ha subito minacce da nessun Paese vicino. Il genocidio è il mezzo con il quale tutte le potenze colonialiste hanno realizzato i propri interessi nel corso della storia. In entrambe le Americhe, in Africa, in Asia, tutte le potenze hanno portato avanti il loro interesse mediante il genocidio. Il nuovo colonialismo ha fatto uso dello stesso mezzo. Tutto il mondo dovrebbe sentire questo allarme, perché tutto il mondo è meta di questo colonialismo, inclusa l’Europa arretrata ed addormentata. Gli Usa potrebbero realizzare il loro ruolo da leader diffondendo benessere, nuove tecnologie, mercato libero, valori culturali, e non spargimento di sangue e sofferenza per oltre centinaia di milioni di persone. Il ruolo da leader mondiale si otteneva con la spada ai tempi dell’Impero Romano, ed io ho affermato apertamente che Clinton ha sbagliato millennio. Duemila anni fa, quello era il modo per conquistarsi il ruolo da leader, ma nel terzo millennio no! Nessuno potrà mai nascondere e giustificare i crimini mostruosi che ha commesso la NATO in questa parte dell’Europa, alla soglia del nuovo millennio. Nonostante la decennale campagna mediatica contro il popolo serbo e la produzione di menzogne nella guerra dei media, nella quale è stato fatto uso abusivo della rete globale, e persino ora in questo processo, dovranno lavorare ancora molto per occultare la verità. La verità non la si può nascondere con poco lavoro, devono impegnarsi molto, ma non ci riusciranno”.

Queste le parole di Milosevic che, dinanzi al Tribunale per i crimini di guerra della ex Jugoslavia, ha cercato di salvare la verità e la dignità di un popolo, prima che di salvare se stesso, ben sapendo che quell’evento avrebbe cambiato l’assetto politico dei Balcani e della stessa Europa, nonostante questa si sentisse esente da ogni responsabilità. Oggi la storia ritorna a far sentire il suo grave peso, nell’illusione che un altro Presidente "democratico" possa cambiare gli errori del passato. Cominciamo invece subito col dire che la politica americana nei Balcani sarà la stessa, per ammissione dello staff della Casa Bianca, vista la direzione della squadra diplomatica da parte di Hillary Clinton. Vi è per questo il sentore che qualcosa comincia già a muoversi nella regione. Sentiamo sempre più spesso parlare della cattura di Mladic e secondo alcune fonti, l’ex Generale serbo, è stato già trattenuto e sarà trasportato in una località per dare la possibilità di inscenare la cattura, proprio nel vecchio stile dei Clinton. Da questo punto di vista, la cattura di Mladic potrebbe essere un bel colpo per l’amministrazione americana per risollevare la sua posizione nei Balcani. Naturalmente si parla di processi giusti ed equi, cercando di far credere alla gente che dietro tutto questa sceneggiata vi sia il concetto di Istituzione, di Giustizia. In realtà da questi processi non si stabilisce nulla, le persone vengono zittite, scompaiono i testimoni, e rappresentano un mezzo come un altro per fare politica. Lo stesso processo contro Karadzic è già stato fatto e concluso con tanto di condanna da parte dei media, che senza pietà hanno lanciato titoli e agenzie di primo piano per "il macellaio della Bosnia". Come grande contraddizione, invece, un uomo come Agim Ceku, che guidò le forze paramilitari in Croazia contro i serbi, che terrorizzò i serbi della Krajina, ammazzando bambini e vecchi, e cacciando i serbi dalle loro case, è stato premiato dalla grande amministrazione Clinton, con l’onorificenza di "Generale della UCK" e poi Premier del Kosovo.

In questa strategia che viaggia sul filo del rasoio, la comunicazione è tutto. Le agenzie di stampa cominciano a rilanciare dichiarazioni scioccanti, secondo cui "il generale Mladic avrebbe minacciato i bambini delle sue guardie del corpo e della sua gente", affinchè non venisse tradito e consegnato. Queste sono delle vere e proprie depravazioni mediatiche, che servono semplicemente ad isolare sempre di più Mladic nella sua prossima difesa all’Aja, e ad isolarlo dal contesto in cui è vissuto. La guerra in Bosnia è stata un massacro perpetrato da bande paramilitari, che hanno consentito di deviare l’attenzione dei media dalla graduale colonizzazione che veniva fatta del territorio, e la progressiva scomparsa dei popoli che invece hanno sempre popolato quelle terre. Forse nessuno sa che il 50% del territorio della Bosnia fa parte della Republika Srpska (l’entità serba) ma si cerca di trasformare l’intero Stato in "nazione bosniaca"; allo stesso tempo parte della popolazione bosniaca è costituita da mujaheddin, che hanno commesso i più grandi crimini della guerra in Bosnia contro serbi, croati e gli stessi musulmani. Sulla loro presa indagava Vukovic, capo dell’Ufficio del ministero degli interni della Bosnia Erzegovina, che 10 giorni fa è stato arrestato, nel pieno di un’indagine sui traffici da parte della criminalità organizzata e le collusioni esistenti con i mercenari mujaheddin. Nessuno ha parlato della strana dinamica dell’arresto di questo funzionario che, dopo aver fatto visita al diplomatico americano Raffi Gregorian, si reca a Fiume, in Croazia, dove viene arrestato per traffico di armi e collusione con la criminalità organizzata. Non siamo assolutamente convinti che questa sia la verità, ma siamo consapevoli che questo è il modo in cui questi Paesi risolvono i loro "regolamenti di conti". Questo perché dei Balcani non importa a nessuno, interessa semplicemente a determinate lobbies per mantenere il controllo di determinati territori, con privatizzazioni e svendite, lavorando giorno dopo giorno alla disinformazione e alla divisione continua tra i diversi Stati. Adesso staremo a vedere come il grande Obama "democratico" e la sua amministrazione risolveranno i problemi del mondo, sperando che non bombardi più di quanto abbia fatto Bush.

21 gennaio 2009

La crisi della KAP di Podgorica nelle mani dei russi


Il Governo di Podgorica ha annunciato che sarebbe disposto a lasciare la gestione della fabbrica di alluminio nelle mani dei russi, pena il fallimento della Kombinat aluminijuma di Podgorica (KAP). Si apre un spiraglio per l'approvazione del piano di aiuti di Stato nei confronti dell'industria di alluminio controllata all'oligarca russo Oleg Deripaska (nella foto). Ci si chiede, però, se queste misure potranno colmare la crisi strutturale della fabbrica, che non è stata mai affrontata dalla dirigenza russa.

Ancora nessuna buona notizia per l’industria siderurgica del Montenegro, che sta subendo un lento ed inesorabile declino, che si cerca di imputare a tutti i costi alla crisi globale del mercato automobilistico e quindi dei metalli. In realtà si tratta di una situazione ben più complessa, che vede l’intrecciarsi di una serie di eventi concomitanti, a partire dalla discutibile gestione da parte del Governo di Podgorica delle operazioni di privatizzazione, dei rapporti con le dirigenze delle società acquirenti e con le parti civili in causa, per poi finire con la cosiddetta "crisi globale". Questa sta danneggiando il comparto industriale non solo attraverso il calo della domanda aggregata di prodotti siderurgici, ma anche con la sottrazione di fondi e risorse finanziarie al processo produttivo per pagare, molto spesso, i debiti contratti con Banche e società di investimento. Il Montenegro, da questo punto di vista, rappresenta uno specchio di quelli che possono essere gli errori della finanza e delle privatizzazioni, in quanto la crisi delle sue industrie siderurgiche comincia proprio da una forte responsabilità del Governo e delle società che le hanno acquistate. Dunque, dopo aver esaminato il caso della fonderia Livina di Gatti spa e dell’acciaieria Zeljezara, entrambe dislocate nel complesso siderurgico di Niksic, esamineremo la situazione della Kombinat Aluminjiuma Podgorica (KAP), controllata dalla Central-European Aluminum Company (CEAC), detenuta dall’azionista di maggioranza russo Oleg Deripaska.

Il caso della KAP è molto complesso, in quanto la vera crisi comincia a manifestarsi mesi prima della cosiddetta crisi globale, quando la CEAC decide di querelare il Governo di Podgorica chiedendo un risarcimento danni per 300 milioni di euro dopo che un’esamina dei bilanci ha rivelato delle perdite inaspettate. I legali della CEAC accusano infatti il Montenegro di aver occultato dati importanti per stabilire il valore della Kombinat durante le negoziazioni per l'acquisto della fabbrica. I russi hanno così richiesto l’apertura di un arbitraggio internazionale a Francoforte, istituendo come controparti il Governo del Montenegro, il Fondo di Sviluppo, il Fondo di Assicurazione Pensionistica e l'Ufficio di Collocamento. Il Governo, da parte sua, si è difeso affermando che russi non hanno realmente rispettato il contratto di vendita per quanto riguarda gli investimenti pattuiti, e che per tale motivo non dovrebbe essere preso in considerazione parte dei debiti della Kombinat pari a circa 104.5 milioni di euro. Poco dopo arriva il primo annuncio di Deripaska della possibilità di chiudere la fabbrica di alluminio, nonostante l’approvazione dei lavori di ristrutturazione del valore di 30 milioni di euro nei prossimi due anni e di ulteriori 50 milioni come previsto dal contratto. I segnali di malessere continuano però ad aumentare e la sensazione di un peggioramento della situazione della KAP viene avvertito anche dagli operai, che minacciano continuamente scioperi dinanzi all’inerzia della dirigenza dinanzi alla necessità di contribuire realmente alla vita e al progresso dell’impresa. La società deve infatti affrontare una lunga protesta sindacale in seguito alla mancata liquidazione di circa 18 milioni di euro di stipendi arretrati e 4.5 milioni per dazi doganali.

Così nel mese di dicembre, la CEAC comunica che "ogni altra misura volta a sostenere la KAP come nuovi contributi per l'energia elettrica o altri privilegi, implica solo una conservazione artificiale della società, mentre i nuovi costi e le perdite ricadrebbero sempre sullo Stato", chiudendo qualsiasi prospettiva di sviluppo dello stabilimento. La dirigenza infatti avverte che vi è una situazione di disastro finanziario all’interno della società, che non verrà facilmente colmata con misure superficiali: da queste parole, sembra che la CEAC non è assolutamente intenzionata a tenere aperta la fabbrica di alluminio, giudicata ormai un pessimo investimento da liquidare nel più breve tempo possibile. Infatti, secondo alcune fonti riportate dal quotidiano di Podgorica Vjesti, il miliardario russo sta attualmente negoziando, con diversi investitori cinesi e americani, la vendita del pacchetto di minoranza delle sue società, tra cui anche il gigante dell'alluminio Russian Aluminum (RusAl) , nel tentativo di reperire i fondi necessari per pagare i debiti contratti verso le banche.
A nostro parere, qualcosa cambia ad un certo punto, perché la società lancia l'allarme sulla crisi di liquidità della compagnia, la quale potrebbe mettere a rischio la sopravvivenza della stessa. Dopo la crisi finanziaria strutturale, si parla di crisi di liquidità, per poi sfociare nella crisi globale.

Nel frattempo, infatti, le perturbazioni del mercato finanziario colpiscono senza pietà gran parte degli investimenti dell’oligarca russo Deripaska, che accumula in poche settimane un debito personale di 20 miliardi di dollari, per il quale ha chiesto un credito offrendo come garanzia la sua partecipazione nel gruppo assicurativo russo Ingosstrakh, controllato mediate il fondo Basic Element . Sembra che dopo la forte espansione del suo patrimonio - con investimenti nel comparto dell'energia, delle costruzioni e quello bancario-assicurativo - Deripaska deve progressivamente dismettere parte delle sue proprietà, a cominciare dal 20% di Magna (produttore canadese di componenti per auto), dal 9,99% del costruttore tedesco Hochtief, per poi perdere in borsa il 75% di Basic Element e rifinanziare il prestito ottenuto da un consorzio di banche estere con un finanziamento dello Stato russo per 4,5 miliardi di dollari; tale manovra gli costa cara perché la sua posizione nella Basic Element diventa sempre più precaria, sino all’avanzamento dei soci di minoranza. Dunque, il magnate russo - che comunque gode del sostegno diretto del Cremlino, e di numerosi gruppi bancari europei, come quello dei Rothschild - è stato costretto ad una serie di corsi e ricorsi di emergenza, per colmare un enorme debito, nato però da investimenti speculativi che hanno visto crescere il loro valore nel giro di pochi mesi.

A pagare la colpa del dissesto globale, è la stessa Kombinat aluminijuma di Podgorica, la quale si è vista costretta ad aprire un canale di negoziazioni con il Governo per ottenere degli aiuti di Stato, al fine di consentire almeno l'acquisto delle principali materie prime necessarie al ciclo produttivo e dell’energia elettrica. Il pacchetto di aiuti alla KAP ammonta a circa 50 milioni di euro, e riguarda agevolazioni fiscali, riduzione dei contributi, annullamento del debito per le forniture di energia elettrica e olio combustibile verso la EPCG e la riduzione di altri oneri. Il Governo, da parte sua, afferma che, affinchè siano erogati degli aiuti finanziari statali, occorre che i russi garantiscano per i dipendenti della fabbrica un' occupazione a lungo termine. In caso contrario non vi sarà nessun aiuto e la fabbrica andrà in liquidazione, per poi tornare nelle mani dello Stato. Podgorica aveva anche chiesto come condizione iniziale per esaminare tale richiesta, che l'azionista di maggioranza della CEAC, Oleg Deripaska, receda immediatamente dalla causa contro lo Stato, presso il Tribunale di arbitraggio di Francoforte. Al momento il ciclo produttivo rischia la paralizzazione, in quanto i lavoratori hanno minacciato di incrociare le braccia dopo che sono stati informati che la società non avrebbe pagato il salario del mese di dicembre, considerando che il conto della KPA presso la Banca Commerciale del Montenegro era stato improvvisamente bloccato. Inoltre, la produzione nella miniera di bauxite di Niksic - fermata per le festività natalizie il 17 dicembre - non ha ancora ripreso a funzionare, dopo che l'estrazione del minerale, che è destinata alla Kombinat Alluminjiuma Podgorica (KAP), è stata nuovamente rinviata per risparmiare sui costi della lavorazione, dato che la materia prima impiegata per la produzione di alluminio non è sufficiente.

Secondo gli ultimi aggiornamenti provenienti da Podgorica, il Governo ha annunciato che sarebbe disposto a lasciare la gestione della fabbrica di alluminio nelle mani dei russi, pena il fallimento della KAP stessa, e le gravi conseguenze sull 'economia del Paese, sui lavoratori, sull’intera filiera dell’alluminio e sul sistema bancario. Il governo, dunque, preferisce che la KAP continui ad operare nel gruppo CEAC, in quanto il fallimento non è assolutamente un’opzione da prendere in considerazione. Dinanzi alla minaccia dei russi di chiudere la fabbrica e di licenziare più di 4000 persone se non saranno devoluti gli aiuti di Stato, il Governo ha intavolato dei colloqui a cui stanno prendendo parte non solo i rappresentati del gruppo russo, ma anche il consorzio di banche che cooperano con la CEAC e i principali creditori. Delle trattative che hanno come posta in gioco la sopravvivenza di una comunità di lavoratori e di un ecosistema economico, e come contropartita un vero e proprio ricatto. Il Governo ha le sue grandi responsabilità, non può indietreggiare dinanzi a questa richiesta perché non può tradire il suo elettorato all’indomani delle prossime elezioni e della crisi che si sta abbattendo sul Parlamento. Allo stesso tempo, il Premier Djukanovic non può venir meno alla parola data ad Oleg Deripaska, il quale rappresenta anche un diretto partner di investimenti nel progetto turistico della costa di Budva. Infine, la questione della KAP va chiusa nel più breve tempo possibile, in quanto è un affare che pesa su entrambi le parti, sia per il modo in cui è stato ottenuto, sia per come è stato gestito.

20 gennaio 2009

Il monito della Russia verso Balcani ed Europa


Sembra che sia realmente cessata la lite senza fine tra Russia e Ucraina, con la ratifica da parte di Vladimir Putin e Yulia Tymochenko dei due contratti risolutivi. L’esito positivo della controversia può senz’altro essere salutato come un successo diplomatico , ma lascia comunque una profonda amarezza per come è stata gestita questa crisi del transito, o guerra del gas. Tutto lascia pensare ad un monito di Mosca verso i Balcani e l'Europa.

L'Ucraina ha riattivato il flusso di gas russo cominciando ad iniettare gas nella rete di distribuzione per riprendere così il transito verso l’Europa sospeso il 7 gennaio. I cancelli vicino Sumy sono stati riaperti e la stazione di controllo a Soudja, sul confine russo-ucraino, sta o ricevendo il gas. Progressivamente Gazprom riaprirà altre vie di transito attraverso l'Ucraina, sino a raggiungere un flusso di 400 milioni di metri cubi di gas al giorno, per poi giungere in Europa dopo 36 ore dall’inizio della fornitura. Sembra che sia realmente cessata la lite senza fine tra Russia e Ucraina, con la ratifica da parte di Vladimir Putin e Yulia Tymochenko dei due contratti risolutivi, in base ai quali l'Ucraina riceverà nel 2009 uno sconto del 20% sul prezzo del gas russo, ma il prezzo medio imposto sul mercato europeo sarà pari ai 450 dollari per 1.000 m3; in contropartita la Russia pagherà il transito allo stesso prezzo del 2008, fissato a 1,7 dollari per 1.000 m3 per 100 km. Putin ha spiegato che l’accordo di transito tra Gazprom e Naftogaz Ukraine, si estenderà su più di dieci anni, dal 2009 al 2019, in una prospettiva di lungo termine che permetterà - a suo dire - di gestire meglio i rapporti di fornitura e consegna ai cittadini europei. Ha assicurato che, da questo momento in poi, non sarà più necessario controllare il transito del gas russo verso l'Europa attraverso l'Ucraina, mentre saranno eliminati ogni tipo di relazione intermedia, escludendo dal sistema di regolamentazione del gas le strutture intermedie di ogni genere.

L’esito positivo della controversia può senz’altro essere salutato come un "successo diplomatico", ma lascia comunque una profonda amarezza per come è stata gestita questa crisi del transito - o guerra del gas - sia da parte della Russia che dell’Unione Europea. Mentre Mosca ha mosso in assoluta libertà le sue pedine per la risoluzione di questa crisi, i Paesi Europei sono stati in balia degli "umori dei due litiganti", senza mai entrare veramente nel cuore della questione. L’Europa è stata coinvolta, è vero, tuttavia in maniera molto superficiale e forse solo per placare l’allarmismo di Barroso o della Merkel. È stata creata la squadra di osservatori internazionali che però non ha mai avuto realmente accesso agli impianti, in quanto le era stato chiesto di "constatare" semplicemente che la responsabilità dell’interruzione del gas fosse dell’Ucraina, e non della Russia. Vista la loro inefficacia, le società energetiche hanno proposto la creazione di un consorzio internazionale che sia l’unico intermediario tra Gazprom e Naftogaz, ma anche su questo fronte vi è stato un timido accenno e poi nessun’altra spiegazione, tale che abbiamo seri dubbi che questo progetto sarà veramente portato termine. Tutti questi tentativi andati a vuoto, non fanno che confermare l’impressione iniziale, ossia che le controversie tra Ucraina e Russia sono delle semplici "scosse di assestamento" del mercato del gas che vuole sganciarsi progressivamente dal dollaro e dal petrolio per avere una propria struttura a sé stante, in cui i ruoli di consumatore, fornitore ed intermediario sono ben definiti.

Per tale motivo, il coinvolgimento dell’Europa - a nostro parere - ha solo allungato i tempi della risoluzione della controversia, perché ogni colloquio bilaterale tra Gazprom e Naftogaz ha dovuto aspettare la lenta macchina burocratica dell’Unione Europea, con i suoi esperti e i suoi osservatori. Evidentemente la Russia ha voluto dimostrare all’Europa che non vi sono molte alternative al gas russo, e tutto ciò che può fare è "mettere mano al portofoglio" per privatizzare parte della sua struttura gassifera, investire in progetti comuni e offrire sbocchi sul mare per l’attracco di petroliere e lo sbocco di gasdotti strategici. Occorre inoltre riflettere sul fatto che i Paesi più colpiti sono stati proprio quelli della regione balcanica, che non hanno ancora intrapreso gli investimenti necessari per accumulare le riserve energetiche strategiche o per diversificare le proprie fonti di approvvigionamento. Da questo punto di vista, il taglio del gas a Paesi come Croazia, Bosnia e Serbia si è tradotto in un vero e proprio avvertimento per una più rapida risoluzione degli accordi, e per la concessione di importanti sbocchi sul mare adriatico. La Russia ha fatto ben capire alle ex Repubbliche jugoslave come stanno davvero le cose, e l’Europa non potrà fare altro che accettare le condizioni imposte da Mosca. Questo non perché Mosca sia più forte diplomatica, ma perché l’Europa stessa ha permesso che il suo mercato interno fosse lacerato dalle catene di speculatori, o che il settore energetico venisse gestito in maniera anti-economica e senza una prospettiva di lungo termine. L’Europa non potrà mai dire un giorno che la Russia non vuole darle il gas, perché si troverà dinanzi alla scelta obbligata di mettere fuori mercato le multinazionali che hanno speculato contro gli interessi dei cittadini europei.

Tutti i vecchi piani energetici si sono inesorabilmente sfaldati, ed è partita ormai la corsa per la costruzione di centrali, rigassificatori e nuove pipelines. Allo stesso modo, emergono nuovi giocatori che prendono posizioni sulla scacchiera dell’Europa sud-orientale. Prima tra tutte, è l’Italia, portaerei del Mediterraneo, che ha sottoscritto un accordo energetico con la Russia molto più complesso del progetto del Sud Stream, al fine di creare l’asse Roma-Belgrado-Mosca. Un accordo che porterà l’Italia per la prima volta nei Balcani come punto di riferimento e vero intermediario per accedere a Bruxelles, considerando che ha avuto sempre un ruolo di bassa rilevanza. E così la Farnesina sosterrà la Croazia se questa concederà vere garanzie sulla risoluzione delle controversie ereditate dal passato, e lo stesso farà con Serbia e Montenegro. La controparte occidentale in passato ha obbligato i nuovi Governi dei Balcani ad abbracciare politici ed ex ladri di galline, marescialli di bassa leva dando loro una credibilità gratuita, proprio perchè americani e inglesi hanno manipolato la politica e la storia del crollo della Jugoslavia. La dimostrazione è proprio la considerazione che i media hanno sempre fatto un’informazione sterile sui Balcani, definendosi esperti conoscitori di questi Paesi, ma in realtà hanno solo contribuito a fomentare gli odi interetnici finanziando organizzazioni e campagne propagandistiche. Oggi qualcosa potrebbe cambiare e la crisi economica, e la stessa integrazione dei Balcani in Europa, potrebbero essere i vettori per imporre un "new deal" sulla questione energetica e sulla divisione delle zone strategiche di influenza nel Sud-Est Europeo. È ora in moto una complessa macchina diplomatica, fatta non solo di ambasciatori ma anche di imprese e di investitori, per la creazione di un vero polo energetico del Mediterraneo, basato sulla condivisione di risorse e servizi.

16 gennaio 2009

La farsa della crisi del transito del gas


Tra strumentalizzazioni politiche e speculazioni nel mercato parallelo, la guerra del gas sta diventando una vera e propria manovra per destabilizzare il ruolo dell’Ucraina nella rete degli approvvigionamenti e dare un nuovo volto al mercato del gas. L’Europa cerca di sdoganare il suo ruolo di mero consumatore, ma continua a vestire i panni dell'utente danneggiato. Una posizione che non piace alla Russia, che vuole un diretto intervento di Bruxelles per risolvere l'impasse.

Il protrarsi per inerzia del blocco delle forniture di gas sta delineando la vera natura di questa "crisi del transito". Tra strumentalizzazioni politiche e speculazioni nel mercato parallelo, la guerra del gas sta diventando una vera e propria manovra per destabilizzare il ruolo dell’Ucraina nella rete degli approvvigionamenti e dare un nuovo volto al mercato del gas. Le forze in campo sono molte ed ognuna fa un doppio gioco per essere contemporaneamente partner e leader. L’Europa cerca di sdoganare il suo ruolo di mero consumatore, per spezzare la catena degli intermediari ed ovviare al fallimento della strategia di diversificazione con una strategia di partecipazione alla rete energetica russo-europea. Allo stesso tempo però ammette la sua dipendenza nei confronti del gas russo, e si cala completamente nelle vesti dell’utente che ha subito ingenti danni, minacciando azioni legali per ottenere il risarcimento del pregiudizio subito. Inoltre, mentre molti Stati sono rimasti completamente senza gas, chi gode di riserve strategiche rilancia le proprie risorse sul mercato ad un prezzo maggiorato che tenga conto del "sacrificio" delle scorte, e della necessità di chi non ha altra scelta. In particolare, il gruppo tedesco E. ON Ruhrgas, ha iniziato giovedì le consegne di gas ad effetto compensativo per la Slovenia, e per i Paesi che non hanno riserve strategiche, tra cui Croazia, Bosnia, Ungheria e Serbia, attraverso delle filiali di compensazione per i paesi dell'Europa centrale e sud-orientale. Tuttavia, secondo quanto riferito dagli Stati dei Balcani beneficiari, il prezzo pagato ai partner tedeschi si aggira tra i 500 dollari per mille metri cubi di fornitura, ossia circa 50 a 70 dollari in più rispetto alla regolare fornitura di gas russo (attraverso l'Ucraina). Una condizione così stabilita in quanto "non vi è nessuna ragione politica o assistenzialista che possa renderlo uguale o inferiore a quello di mercato".

L’Ucraina, da parte sua, vuole fare un salto di qualità, smettere di essere un semplice "Stato di transito" per sottostare alle condizioni dettate quasi sempre unilateralmente da Gazprom, e rivendicare sia presso l’Unione Europea che presso il Cremlino una posizione di maggior prestigio. Il suo doppio gioco funziona ovviamente con l’Europa, ma non certo con Mosca, la quale conosce e monitora da tempo le tattiche di Kiev. Infine la Russia è il giocatore che maschera meglio la sua strategia, da grande regista triplogiochista. Bisogna ammettere che in questa situazione è Gazprom ad avere il coltello dalla parte del manico, avendo il controllo delle risorse energetiche e, in un certo senso, anche della rete distributiva; se lo volesse, potrebbe in qualsiasi momento fermare questa farsa, ma dovrebbe pagare il caro prezzo di sottostare al lunatico comportamento di Kiev e alle pressioni dell’ Unione Europea: una debolezza che in questo momento non può permettersi, con una crisi economica in corso e l’instabilità del mercato energetico travolto dal crollo del petrolio. Per tale motivo ha deciso di tagliare le forniture, magari di offrire la riattivazione solo a proprie condizioni - ben sapendo che l’Ucraina non avrebbe mai accettato - e infine di chiedere l’intervento diretto dell’Europa.

L’ultima mossa è quella più vicina alla risoluzione del suo rebus, in quanto potrebbe consentire di mettere parzialmente fuori gioco l’Ucraina, e di avere un partner nei cui confronti ha sicuramente un maggiore potere contrattuale. Così, dopo l’ennesimo fallimento di un tentativo di riconciliazione (a dire il vero molto timido) con la proposta di fornire una quantità "tecnica" di gas per riattivare la funzionalità delle conduttura, Mosca propone all'Europa di condividere i rischi del transito e di creare un consorzio per l'acquisto di combustibile direttamente da Gazprom. Una proposta che giunge dallo stesso Vladimir Putin durante la riunione con i Presidenti di Gazprom ed ENI, Alexei Miller e Paolo Scaroni. "L’Ucraina ha bisogno del gas necessario per mettere in funzione le stazioni di pompaggio, ossia 1560 miliardi di metri cubi nel primo trimestre 2009 e 1,7 miliardi in totale. L'Ucraina ha fatto la strana proposta di cedere questa quantità in proprietà e di non vendere - ha dichiarato il Primo Ministro russo, aggiungendo - proponiamo pertanto ai nostri partner europei di condividere i rischi di transito e di creare un consorzio internazionale che potrebbe acquisire la quantità necessaria di gas da Gazprom, e di inviarla immediatamente all'Ucraina al fine di garantire il transito in Europa ", ha detto Putin. Da parte sua Scaroni ha accolto con favore la proposta russa, ritenendola "una proposta costruttiva". È chiaro che la Russia vuole interrompere il rapporto di fornitura-transito con l’Ucraina per proporre all’Europa di divenire grossista, per poi gestire anche le fasi di transito e di fornitura. Una manovra, tuttavia, che andrebbe a coprire Gazprom da ogni rischio connesso al rapporto di transito con l’Ucraina, e allungherebbe ancora di più la filiera distributiva del gas, attualmente già molto complessa, con costi aggiuntivi per i consumatori europei.

Occorre considerare che Gazprom, sino ad oggi, ha costruito una rete di intermediari che controlla al 50% con i Paesi partner, tale che ogni grossista distributore è costituito da una joint venture co-partecipata al Paese beneficiario e il Paese fornitore: una strategia che ha consentito al gigante russo di recuperare parte del valore aggiunto sul prezzo del gas, rincarato ad ogni passaggio della filiera. Ad esempio, la compagnia energetica bulgara Bulgargaz non ha alcun contratto diretto con il gigante russo, in quanto riceve gas russo attraverso tre filiali di Gazprom, Overgas Inc. , Wintershau e Gazprovexport, i quali acquistano gas per la Bulgaria. Secondo il regime di consegne nel 2008, il gigante del gas russo Gazprom vende il proprio gas a RosUkrEnergo, una società di proprietà al 50% di Gazprom e domiciliata in Svizzera, che ha ceduto al gruppo pubblico ucraino Naftogaz parte della società Gazpromsbyt Ukraine, controllata al 100% da Gazprom, che a sua volta ha fornito le imprese industriali dell'Ucraina. Il gruppo è stato creato nel luglio 2004, e definito come unico fornitore di gas per l'Ucraina, nonché grossiste per le sue esportazioni di gas verso l'Europa. Tale schema ha consentito a RosUkrEnergo di fornire gas a Naftogaz ad un costo di 179,5 dollari per mille metri cubi, e quindi il gruppo ha venduto all'ucraina ad un presso molto più alto, senza considerare che parte di queste entrate ritornavano a Gazprom. Inoltre, lo scorso 3 gennaio, RosUkrEnergo ha presentato presso la Corte di Arbitrato internazionale di Stoccolma, una denuncia contro Naftogaz chiedendo il pagamento di 614 milioni di dollari in titoli di debito e la ripresa delle forniture di gas russo verso l'Europa, tagliato a causa di una controversia del gas russo-ucraina. Il forte potere contrattuale della RosUkrEnergo è stata, inoltre, una delle cause del mancato rinnovo del contratto a partire dal 1 gennaio 2009, dopo la richiesta del Primo ministro ucraino Yulia Tymoshenko di escludere l'operatore svizzero dal regime delle forniture di gas russo in Ucraina.

Per cui, la creazione di un consorzio partecipato dall’Europa avrebbe senz’altro un diverso peso politico nei confronti dell’Ucraina, che al momento rappresenta lo Stato di transito meno controllabile da Mosca e da Bruxelles, visti i suoi legami indiretti con le forze anglo-americane. Un peso politico che si non tradurrebbe certo in vantaggio per i cittadini europei che dovrebbero farsi carico del "rischio di transito" e del costo della filiera di distributiva. D’altro canto, può essere definita una proposta costruttiva, in considerazione del fatto che contribuisce a dare un nuovo volto al mercato del gas, e crea per l’Europa un canale per poter avere un maggior controllo dei rifornimenti, non solo come mero consumatore ma come partner strategico.
Tale obiettivo appare nelle stesse parole del capo della diplomazia russa Sergei Lavrov, chiedendo che sia l'UE a fare le dovute pressioni nei confronti dell'Ucraina a rispettare i suoi impegni in materia di transito del gas russo. "Questo è proprio il momento in cui l'Unione europea deve dimostrare la sua famosa solidarietà e spiegare ai colleghi ucraini che è inaccettabile non rispettare l'accordo sul transito del gas russo verso l'Europa, un contratto in vigore fino al 2010 ", afferma Lavrov in una conferenza stampa a Mosca, ammettendo inoltre che la Russia non si è mai posta il problema della diversificazione delle sue fonti di approvvigionamento. "Se qualcuno inizia a cercare altre fonti di approvvigionamento energetico, questo non ci preoccupa. Inoltre maggiori sono le fonti di approvvigionamento, maggiore è la sicurezza. Questo è sempre stata la nostra preoccupazione, noi stessi stiamo cercando di aumentare le rotte di esportazione verso l'Europa - dichiara, concludendo - l'Unione europea è libera di scegliere i propri fornitori di petrolio, e ventisette Paesi sono ben consapevoli che la Russia è stato un partner affidabile per decenni". E' chiaro che l'Europa non ha molta scelta, e questa rappresenta una ghiotta occasione - creata volontariamente da tutti gli attori in gioco - per prendere una posizione più chiara, e decidere se essere partner o leader.

15 gennaio 2009

Il crollo del mito americano


Lo scenario degli Stati Uniti assomiglia sempre più a quello dei film apocalittici. Con il crollo dell'industria automobilistica la città di Detroit, sta entrando a far parte di una scenografia di film SF, divenuta ormai una città abbandonata. Il mito americano si è frantumato in mille pezzi, e gli uomini hanno perso non solo il lavoro, ma anche la fiducia e la speranza. Per sopravvivere le persone hanno cominciato a vendere parti del loro corpo: l’anima è la prima cosa che hanno deciso di vendere.

Mentre l'Europa resta sotto la pioggia ghiacciata senza il gas russo, lo scenario degli Stati Uniti assomiglia sempre più a quello dei film apocalittici come "The Day After Tomorrow". Queste ambientazioni di genere SF sono lentamente entrate nella nostra visione della realtà, passando dalla tela cinematografica al reality show, come accaduto con la caduta delle Torri Gemelle. Un’osservazione che ci lascia temere che l'America è già entrata nel suo circolo delle "catastrofi". Dalle notizie che trapelano dalla stampa e dai telegiornali americani possiamo vedere che il mondo capitalistico si sta sfaldando non solo con il crollo delle Borse Valori e di Wall Street, ma anche dell’anima delle stesse persone, provocando qualcosa che possiamo definire "la vera fine" o "Inferno di Dante". La città di Detroit, nota per il suo centro di produzione dell'industria automobilistica, sta entrando a far parte di una scenografia di film SF, divenuta ormai una città abbandonata. Anche i detenuti del carcere di Detroit si rifiutano di uscire per paura di diventare barboni, e molti che escono decidono di compiere degli atti criminali per essere arrestati di nuovo. Riuscire ad ottenere un lavoro dopo il carcere, che permette di avere un'assicurazione sanitaria, tre pasti al giorno e un tetto caldo in cui vivere, è divenuto impossibile così scelgono di rimanere in carcere per avere salva la vita. Gli stessi cittadini di Detroit si sono trovati in grandi difficoltà ed improvvisamente sono entrati nella vera povertà, impotenti dinanzi ad una condizione disastrosa, come ogni grande città americana: il tenore di vita per i cittadini sta sicuramente peggiorando a vista d’occhio.

Nei suoi tempi migliori, la città di Detroit era nota come la città della General Motors, della Crisler e della Ford. Ma oggi, con la caduta dell'industria automobilistica è diventata la città dei fantasmi, e a chiunque chiederete nelle strade di Detroit, vi potrà rispondere sicuramente che nessuna crisi può colpire e far cadere una città in così breve tempo. Le radici della crisi sono infatti ben più profonde e radicate di quel che si pensi. I più ottimisti sono i più vecchi perchè già conoscono la recessione degli anni '30, poi la crisi di anni '60, e secondo loro questo è soltanto uno dei cicli dell'economia mondiale. Al contrario, la più grande forza americana, i giovani sono assolutamente pessimisti, e preferiscono entrare nella criminalità organizzata, che continua ad avanzare, allo stesso passo della povertà e della disoccupazione. Molti giovani non possono continuare a studiare perchè sono rimasti senza lavoro part-time, oppure i loro genitori sono stati licenziati o si sono visti ridurre le paghe. Molte scuole sono state chiuse e ora il sistema scolastico ha un’altra sfida da affrontare, quella di evitare la disoccupazione e dare altre specializzazioni alle persone rimaste senza lavoro. Quello che è stato il "motore vitale" della città per 100 anni, ora è fallito totalmente, con un debito di quasi 300 milioni di dollari, una disoccupazione salita al 21%, e decine di case e negozi ormai vuoti, mentre l'ex sindaco è in carcere per uno scandalo di sesso. La popolazione è diminuita per 1.8 milioni, e ora l'83% sono afro-americani. La città ha chiesto 47 milioni di dollari per rimodernare l'infrastruttura delle abitazioni, metà del bilancio sarà usato per distruggere 2300 case abbandonate: a partite dal 2005 sono stati chiusi 67000 locali, mentre 44000 case sono state abbandonate. Abbattere una casa costa 10.000 dollari, mentre per comprarne una nuova occorrono 18.000 dollari, ma comunque le case non si vendono. La maggior parte della popolazione di Detroit era impegnata nell’industria automobilistica, e la crisi del settore ha provocato un'altra "crisi umanitaria". Ogni giorno, per le strade, aumentano le file davanti agli sportelli delle organizzazioni umanitarie che danno cibo o vestiti, un ricovero o un pasto.


L’America, la terra dell'ottimismo e della rivincita personale, ha perso la sua grinta, e in questi tempi oscuri le persone "hanno perso anche l`anima", come afferma un sacerdote di Detroit. Cosa farà oggi l'America, che con la sua politica delle "guerre umanitarie" non ha portato la pace né la democrazia da nessuna parte, non essendo riuscita a salvare neanche gli stessi cittadini di New Orleans. Lo stesso si dovranno aspettare anche i cittadini di Detroit, una città fantasma, nell’attesa che il Congresso americano dia loro i soldi chiesti per risollevare l’industria. E anche in questo l’America non smette di stupirci: mentre la gente di Detroit chiede dei soldi per mangiare e salvarsi la vita, i due "Re del porno" , Larry Flint e Joe Frencis, hanno chiesto al Congresso americano un aiuto di 5 miliardi di dollari per aiutare il settore cinematografico pornografico, proponendo le stesse motivazioni dei tre grandi produttori dell'industria automobilistica. Flint e Frencis hanno sottolineato come la pornografia contribuisce al PIL interno per 13 miliardi di dollari. "Sembra che il Congresso è disposto ad aiutarci. Anche noi, come gli altri che hanno chiesto aiuto, meritiamo lo stesso rispetto", spiega Frencis, che ha scontato in passato un anno di carcere per scandali e prostituzione. A suo parere, la manovra potrà contribuire a sollevare l'animo della gente, in quanto "la gente è depressa per la recessione e non potrà essere sessualmente attiva", "questo non è certo un bene per la salute della nostra nazione". "Gli americani potranno rimanere anche senza macchine ma non senza sesso", ha sottolineato Flint che fa appello ancora una volta al Congresso per "alzare l'appetito sessuale americano". A nostro parere, considerando che il Congresso è stato più volte colpito da scandali sessuali, non sarà certo strano se alla fine deciderà di dare un supporto all'industria pornografica invece che a quella automobilistica, sia per "sostenere l'animo americano" sia perchè sono stati sempre dei buoni clienti.

Senza lavoro, senza auto, e senza fare neanche l'amore, gli americani sono costretti giorno dopo giorno a vendere le loro case nuove per sopravvivere. Le statistiche dimostrano che si vende qualsiasi cosa, e che anche la vendite alla banca del seme è triplicata, considerando che una dose costa dai 60 ai 100 dollari. Nello stesso periodo, anche le donazioni di ovuli sono aumentate del 30 %, e una cella costa 7000 dollari, mentre quelle di plasma di sangue del 50% ed ogni dose viene pagata dai 20 ai 50 dollari. Da questo punto di vista, la crisi non ha portato solo male, ma anche bene perché la banca del sangue non sono mai state così numerose, e così potranno essere salvate anche le vite degli altri. Lo stesso sta accadendo per gli organi, e anche se i più venduti sono sempre i reni, le persone cominciano a dare i propri capelli per fare le parrucche dei ricchi. La maggior parte dei venditori di sperma e di ovaie sono sicuramente giovani, che con un paio di dosi potranno pagarsi l’alloggio oppure le rette scolastiche dell'università. Studenti, giovani, e ogni cittadino americano è ora costretto a stringere la cinghia.
Questo dunque dovrebbe essere il progresso e il sogno che offriva poco fa la Green Card?
La Visa ha annunciato che sono diminuite le operazioni delle loro carte di credito e si usano soltanto per la benzina e per il cibo. "La nostra economia è vissuta per molto tempo su dei falsi pilastri, producendo e comprando delle cose che non ci servono. A parte questo, la gente ha speso di più di quel che guadagnava. Così, non vi è niente di strano per quello che sta succedendo", dichiara un economista americano sottolineando che nel 2009 si attende ancora una recessione del 4%. L’industria americana avrà una perdita di altri 60 miliardi di dollari, e sarà non solo una perdita per l'economia, ma anche e sopratutto un fallimento per l' "anima americana", il crollo del mito che per anni ci ha illusi, come il loro burro di arachidi e le superstar di Hollywood. Ora la leggenda si è frantumata in mille pezzi, e gli uomini hanno cominciato a vendere parti del loro corpo per sopravvivere. L’anima è la prima cosa che hanno deciso di vendere.

13 gennaio 2009

Mileva Maric: il suo segreto resta negli archivi


La storia di Mileva Maric, scienziata serba e moglie di Albert Einstein, resta infatti avvolta da un grande mistero, tale che non è stato ancora possibile capire quanto Mileva abbia influito sul lavoro scientifico di Einstein e sulla stessa teoria della relatività. I documenti che dimostrano la sua esistenza e il suo contributo nella collettività scientifica, sono stati custoditi e salvati dall'oblio da tanti studiosi ed intellettuali, mentre l'indifferenza dei politici ha causato il suo lento logorio.

Mentre gli Stati Uniti possono avere il merito di aver creato importanti marchi come McDonald’s o Coca cola, famosi al mondo al pari di grandissime scoperte intellettuali, la Serbia elogia la memoria di grandissime menti come Nikola Tesla o Mileva Maric, ricordati solo dalle esposizioni dei musei con pochi visitatori. In particolare, la storia di Mileva Maric, scienziata serba e moglie di Albert Einstein, resta infatti avvolta da un grande mistero, tale che non è stato ancora possibile capire quanto Mileva abbia influito sul lavoro scientifico di Einstein e sulla stessa teoria della relatività ( si veda La Teoria della Relatività e Mileva Maric ). Dopo il divorzio con Mileva, sembrava che Einstein volesse nascondere tutte le prove che hanno ricondotto il suo passato a lei, tale che solo pochi documenti della loro vita insieme sono stati conservati. Forse proprio per non far cadere il mito del genio di Einstein, rivelando che dietro alle sue scoperte vi è stato il duro lavoro della moglie, che l’esistenza e il contributo di Mileva sono caduti nell’oblio.

Allora, l’epoca in cui Mileva e Einstein vivevano, non concedeva spazio alle donne presso i circoli accademici e intellettuali. Per tale motivo, Mileva non ha potuto studiare presso l’università di Belgrado, e così si è rivolta al Politecnico scientifico di Zurigo (ETH) per studiare medicina; dopo poco tempo ha deciso di iscriversi alla facoltà di fisica e matematica, diventando una delle quattro donne al mondo che si occupavano di tali studi. L’incontro con Einstein e il loro amore portò alla nascita della prima figlia Liza, e al successivo matrimonio nel 1902 con altri due figli, Eduard e Hans Albert: questi eventi portarono a profondi cambiamenti nella sua vita privata e professionale, creando così la concreta prospettiva di una scienziata d’eccellenza come previsto dai suoi professori. Tuttavia la sua vita fu completamente dedicata alla famiglia e al lavoro di Einstein, il quale decise la separazione nel 1919. Dopo questa traumatica decisione, Mileva Maric si è allontanata dai riflettori e la gente l’ha presto dimenticata, e così chi la ricordava solo come “ moglie di Einstein” e non come scienziata, ben presto, dopo il divorzio, non ricordarono neanche più il suo nome.

Per molti anni non si conosceva il luogo in cui era stata sepolta, fin quando, il 23 giugno 2004, la sua tomba è stata ritrovata al cimitero Nordhaim di Zurigo, grazie all’impegno del pittore Petar Stojanovic, fondatore del Centro memoriale di Nikola Tesla di Sent Galen. Questa rappresenta l’ennesima testimonianza che soltanto le persone, senza il supporto degli Stati - che antepongono i propri interessi politici al patrimonio intellettuale - hanno contribuito a conservare la memoria di una donna di grande importanza intellettuale. Il pittore Petar Stojanovic, nato in Austria e di origine serba, da molto tempo si interessa della vita e del lavoro di Mileva Maric-Einstein, decidendo persino di trasferirsi a Zurigo per poter fare delle ricerche direttamente sul campo. “Il mio trasferimento dall’Austria alla Svizzera, mi ha aiutato a trovare numerosi documenti relativi alla vita di Mileva Maric. Così ho incontrato la dottoressa Ana Pia Mansen, direttrice dell’ Archivio di Zurigo, che mi ha aiutato nella mia ricerca per scoprire se Mileva sia stata sepolta a Zurigo il 4 agosto del 1948”, ha dichiarato. Come Petar Stojanovic, anche lo scrittore Dorde Krstic, autore del libro “Mileva e Albert Einstein - amore e lavoro scientifico insieme“ (Mileva & Albert Einstein: Love and Joint Scientific Work), che da anni vive in Slovenia, è spinto dall’entusiasmo di salvare questo pezzo importante della storia della scienza, anche se dovrebbe essere un compito dello Stato.

So che la casa della famiglia Maric a Novi Sad è in pessime condizioni, perché è stata costruita nel 1907 e fino ad oggi non è mai stata restaurata. Sono in contatto con il direttore del Museo della città, Milan Paroski, a cui fornisco tutta la documentazione di Mileva in mio possesso. Ritengo che tutti hanno sbagliato nei confronti di Mileva, la quale oggi merita almeno un riconoscimento da parte della sua città, Novi Sad”. Infatti, fra poco tempo ricorrerà l’anniversario dei 60 anni della sua morte ma ancora non è stata ricostruita la casa in cui visse con i genitori, in via Kisacka 20 a Novi Sad, per divenire un monumento storico. Da molti anni, con la scusa dei “non chiari rapporti legali e di proprietà” dei lunghi tempi della burocrazia, la casa dei genitori di Mileva continua ad essere logorata dal tempo, dall’ignoranza e dalla negligenza dei politici. Il successore legale dell’abitazione è il nipote di Einstein, Bernard Cesar Einstein, il quale l’ha regalata alla città di Novi Sad, autorizzando l’amico di famiglia Dorde Krstic a trasformare la casa dei familiari di Mileva, nel ‘museo’ di Mileva Maric e Albert Einstein. “Novi Sad avrà così, in esclusiva, un museo in cui sarà possibile scoprire la vita di Mileva Maric”, ha dichiarato in un’intervista Krstic, aggiungendo che verranno esposti circa cinquanta documenti e prove, a testimonianza della vita in comune della coppia Maric-Einstein. Krstic, da più di 50 anni, indaga e raccoglie testimonianze e documenti sulla vita di Mileva; in questo grande lavoro è stato aiutato dal figlio Hans, che ha vissuto in America come professore universitario fino al 2001, anno nel quale è morto.

Per quanto riguarda invece i documenti dell’appartamento di Zurigo di Mileva, questi sono misteriosamente scomparsi e in tutte le biografie mancavano i dati che per anni sono stati conservati segretamente nell’archivio di Einstein a Gerusalemme. Questi sono stati portati alla luce solo nel 1987, a seguito di una protesta della comunità scientifica, anche se non nella loro totalità. Radmila Milentijevic, professoressa di storia europea presso l’Università di New York, è stata tra i pochi fortunati a poter consultare quell’archivio, chiuso al pubblico dallo Stato di Israele per oltre 30 anni. “Einstein è stato un ebreo-tedesco, un fisico e uno scienziato insignito, reso famoso dal Premio Nobel, che in Israele è visto come un culto o un’icona”, afferma Radmila Milentijevic. La professoressa serba spiega di essere riuscita a visionare i documenti per 20 giorni, trovando moltissime informazioni che riporterà all’interno del suo libro che verrà pubblicato prossimamente, prima in lingua inglese e poi nella lingua madre di Mileva, il serbo. Anche la professoressa Milentijevic ritiene che il lavoro di Einstein sia stato ‘ricamato’ anche grazie al duro lavoro della moglie, e che il suo contributo alla teoria della relatività e ad altre scoperte di Einstein, sia stato enorme ma dimenticato per anni. In particolare Radmila Milentijevic afferma che l’ambizioso fisico si sia impossessato del lavoro di Mileva e dopodiché abbia utilizzato i soldi ottenuti con il premio Nobel per aiutare lei e i suoi bambini, rimasti ad abitare nell’appartamento di Zurigo.

Mentre tutto ciò che appartiene ad Einstein è conservato come ‘icona’ - come una delle sue lettere all’asta per 8000 pound – tutto ciò che apparteneva e può ricondurre a Mileva, sarebbe stato perso o dimenticato, senza il lavoro di poche persone che hanno contribuito a custodirlo e tramandarlo. La stessa città di Novi Sad, solo negli ultimi anni ha capito quanto prezioso sia stato il lavoro di Mileva Maric, decidendo di aprire un museo a lei dedicato, e un Premio presso l’Università di Novi Sad, mentre una volta risolti i problemi connessi alla proprietà della casa dei familiari di Maric, potrà anche iniziare la sua ricostruzione e l’apertura del museo. E’ strano però osservare che i serbi spesso dimenticano che la loro cultura è un patrimonio intellettuale mondiale, non apprezzando la scienza, limitando il sistema educativo e umiliando coloro che vi lavorano, la stessa istruzione sta divenendo una “fabbrica di umanoidi”. Nessuno si dovrebbe meravigliare se in futuro, assieme a Tesla, Maric, Pupin e gli altri nomi spesso dimenticati, non cada nel dimenticatoio anche lo stesso popolo serbo e la sua intera cultura.