Le Fondazioni bancarie non possono godere di agevolazioni fiscali perché non equiparabili a degli enti non profit, ma a vere e proprie banche. Questa la sentenza della Cassazione che stabilisce un importante precedente per la definizione giuridica, anche se per il momento solo a fini fiscali, delle ex casse di risparmio privatizzate.
La Cassazione si è finalmente pronunciata sulla definizione giuridica "ai fini fiscali" delle Fondazioni bancarie, ossia le Casse di risparmio privatizzate dalla legge Amato del 1990 e dalla riforma Ciampi del 1999. Viene così stabilito che tali entità non possono godere di agevolazioni fiscali perché non equiparabili a degli enti non profit, essendo in realtà delle vere e proprie banche. Trova finalmente applicazione quel principio stabilito dalla legge italiana secondo cui esiste "una presunzione" dell'esercizio dell'attività di banca per coloro che sono in grado di influire sull'attività dell’istituto creditizio in relazione alla loro partecipazione. In particolare, per la Cassazione tale presunzione può essere superata soltanto se si dimostrasse che tali enti abbiano privilegiato gli scopi sociali, rispetto al governo delle Banche, che dovrebbe essere solo marginale, cosa che in realtà non è. Eppure la riforma Ciampi aveva previsto che le ex Casse di Risparmio, per beneficiare delle agevolazioni, dovevano dismettere le partecipazioni di controllo nelle banche per divenire a tutti gli effetti enti non commerciali, e dovevano svolgere fini di interesse pubblico e di utilità sociale, in maniera prevalente rispetto all’attività bancaria. Evidentemente la legge è stata elusa senza problemi, alla luce del sole, facendo leva sulla lentezza del sistema giuridico italiano e sul sostegno della classe politica, che si è vista bene di alzare la mano contro le fondazioni.
Ad ogni modo, sebbene la decisione riguardi solo un contenzioso tra il Fisco e le Fondazioni, e dunque sulla possibilità di concedere le agevolazioni fiscali che spettano alle entità che svolgono delle attività di assistenza sociale o di beneficenza, rappresenta comunque una sentenza "storica" perché sdogana dalle fondazioni bancarie quell’etichetta perbenista di "entità di interesse sociale". La Cassazione ha dato loro la definizione che più si s'addice, ossia quella di entità che controllano le banche, e dunque esercitano un’attività finanziaria-speculativa che non ha nulla a che vedere con la devoluzione di fondi per la ricerca o la beneficenza. Per tale motivo la sentenza non avrà solo un impatto sul trattamento fiscale delle fondazioni - negando loro l’esenzione della ritenuta sui dividendi o un'imposta ridotta del 50% - ma anche in termini economici e finanziari, in quanto è molto breve il passo nei confronti della ridefinizione dei loro statuti. Ovviamente ci chiediamo cosa avrà spinto lo Stato italiano a chiedere alla Cassazione una sentenza di questo tipo. Innanzitutto non sono da sottovalutare le pressioni dell’Unione Europea che chiedono un adeguamento alle regole di concorrenza e trasparenza vigenti sul mercato comunitario, dove la struttura delle Banche è diversa, presentando fondazioni equiparate a fondi di investimento, fondi sovrani istituzionalizzati, holding e tesorerie, e comunque entità giuridiche che appartengono alla sfera finanziaria.
In secondo luogo, possiamo inquadrare questa decisione nell’ambito della riorganizzazione bancaria all’indomani della crisi che ha colpito soprattutto Banche e alta finanza. In questo contesto di destabilizzazione, le fondazioni bancarie italiane rappresentano un caso sui generis, spesso una realtà protetta e ovattata, che consente loro di non esporsi anche in caso di fallimento della banca che controllano. Questo perche la fondazione non può fallire, può soltanto essere inglobata in un’altra, o andare a costituire un fondo a sostegno di altre fondazioni. Entità, dunque, che possono muoversi liberamente e fungere da punto di accumulazione di liquidità, da reinvestire continuamente. È ovvio che, da questo punto di vista, il loro potere interessa a molti, soprattutto alle Banche estere che cercano di entrare nel sistema italiano, avendo ormai intuito che è difficile prendere il controllo di una banca italiana senza avere il controllo della fondazione che ha alle spalle. Per cui, se da una parte, lo scardinamento del tessuto delle fondazioni può essere un segnale positivo per ridare allo Stato italiano il controllo reale del sistema bancario, dall’altra può aprire nuovi scenari di totale stravolgimento della nostra economia che dovrà adeguarsi ad un nuovo tipo di colonizzazione estera. Dunque, siamo ben lontani dal definire questa sentenza una vittoria di "giustizia sociale", essendo solo un sintomo di questa economia globale che sta cambiando, dove rischiano il fallimento sia i giganti del software sia le industrie automobilistiche, dove le banche riducono il personale ma aumentano gli sportelli, ed infine dove l’informatica e la cibernetica sono un fenomeno sociale.
La Cassazione si è finalmente pronunciata sulla definizione giuridica "ai fini fiscali" delle Fondazioni bancarie, ossia le Casse di risparmio privatizzate dalla legge Amato del 1990 e dalla riforma Ciampi del 1999. Viene così stabilito che tali entità non possono godere di agevolazioni fiscali perché non equiparabili a degli enti non profit, essendo in realtà delle vere e proprie banche. Trova finalmente applicazione quel principio stabilito dalla legge italiana secondo cui esiste "una presunzione" dell'esercizio dell'attività di banca per coloro che sono in grado di influire sull'attività dell’istituto creditizio in relazione alla loro partecipazione. In particolare, per la Cassazione tale presunzione può essere superata soltanto se si dimostrasse che tali enti abbiano privilegiato gli scopi sociali, rispetto al governo delle Banche, che dovrebbe essere solo marginale, cosa che in realtà non è. Eppure la riforma Ciampi aveva previsto che le ex Casse di Risparmio, per beneficiare delle agevolazioni, dovevano dismettere le partecipazioni di controllo nelle banche per divenire a tutti gli effetti enti non commerciali, e dovevano svolgere fini di interesse pubblico e di utilità sociale, in maniera prevalente rispetto all’attività bancaria. Evidentemente la legge è stata elusa senza problemi, alla luce del sole, facendo leva sulla lentezza del sistema giuridico italiano e sul sostegno della classe politica, che si è vista bene di alzare la mano contro le fondazioni.
Ad ogni modo, sebbene la decisione riguardi solo un contenzioso tra il Fisco e le Fondazioni, e dunque sulla possibilità di concedere le agevolazioni fiscali che spettano alle entità che svolgono delle attività di assistenza sociale o di beneficenza, rappresenta comunque una sentenza "storica" perché sdogana dalle fondazioni bancarie quell’etichetta perbenista di "entità di interesse sociale". La Cassazione ha dato loro la definizione che più si s'addice, ossia quella di entità che controllano le banche, e dunque esercitano un’attività finanziaria-speculativa che non ha nulla a che vedere con la devoluzione di fondi per la ricerca o la beneficenza. Per tale motivo la sentenza non avrà solo un impatto sul trattamento fiscale delle fondazioni - negando loro l’esenzione della ritenuta sui dividendi o un'imposta ridotta del 50% - ma anche in termini economici e finanziari, in quanto è molto breve il passo nei confronti della ridefinizione dei loro statuti. Ovviamente ci chiediamo cosa avrà spinto lo Stato italiano a chiedere alla Cassazione una sentenza di questo tipo. Innanzitutto non sono da sottovalutare le pressioni dell’Unione Europea che chiedono un adeguamento alle regole di concorrenza e trasparenza vigenti sul mercato comunitario, dove la struttura delle Banche è diversa, presentando fondazioni equiparate a fondi di investimento, fondi sovrani istituzionalizzati, holding e tesorerie, e comunque entità giuridiche che appartengono alla sfera finanziaria.
In secondo luogo, possiamo inquadrare questa decisione nell’ambito della riorganizzazione bancaria all’indomani della crisi che ha colpito soprattutto Banche e alta finanza. In questo contesto di destabilizzazione, le fondazioni bancarie italiane rappresentano un caso sui generis, spesso una realtà protetta e ovattata, che consente loro di non esporsi anche in caso di fallimento della banca che controllano. Questo perche la fondazione non può fallire, può soltanto essere inglobata in un’altra, o andare a costituire un fondo a sostegno di altre fondazioni. Entità, dunque, che possono muoversi liberamente e fungere da punto di accumulazione di liquidità, da reinvestire continuamente. È ovvio che, da questo punto di vista, il loro potere interessa a molti, soprattutto alle Banche estere che cercano di entrare nel sistema italiano, avendo ormai intuito che è difficile prendere il controllo di una banca italiana senza avere il controllo della fondazione che ha alle spalle. Per cui, se da una parte, lo scardinamento del tessuto delle fondazioni può essere un segnale positivo per ridare allo Stato italiano il controllo reale del sistema bancario, dall’altra può aprire nuovi scenari di totale stravolgimento della nostra economia che dovrà adeguarsi ad un nuovo tipo di colonizzazione estera. Dunque, siamo ben lontani dal definire questa sentenza una vittoria di "giustizia sociale", essendo solo un sintomo di questa economia globale che sta cambiando, dove rischiano il fallimento sia i giganti del software sia le industrie automobilistiche, dove le banche riducono il personale ma aumentano gli sportelli, ed infine dove l’informatica e la cibernetica sono un fenomeno sociale.