"La pace e la stabilità in Kosovo sono l'unico vero modo di assicurare una soluzione che sia accettabile per entrambe le parti". Sono queste le parole del candidato alle elezioni presidenziali statunitensi Barack Obama all'interno di una lettera indirizzata al Presidente del Congresso dell'Unità serba Mirjana Samardzija e riportato dall'agenzia serba Tanjug. Obama per non deludere il suo vasto elettorato di etnia albanese nonché di quello americano, prende una posizione sulla destabilizzazione della Serbia e si schiera accanto alla proclamazione unilaterale dell'indipendenza. Nella sua lettera al rappresentante della Comunità serba presente negli Stati Uniti afferma che "anche in assenza di un accordo unito, i diritti delle minoranze e la necessità di proteggere luoghi storici e religiosi non sono questioni che richiedono alcuna negoziazione", rispondendo così alla richiesta di una sua opinione su di un problema di così vitale importanza. Barack Obama non si scompone di molto, e si limita a confermare la politica condotta sino ad oggi dagli Stati Uniti, volta essenzialmente a fomentare i conflitti etnici latenti per poi dirigere le conferenze di pace, imponendo la presenza di Alti Rappresentanti della Comunità Internazionale, e Commissari Speciali, il cui ruolo è stato sempre quello di sorvegliare sulle scelte di politica economica, di privatizzazione e di liberalizzazione. Egli infatti ribadisce nella sua lettera che continuerà a sostenere gli Accordi di Dayton, e in maniera particolare quelle parti dell'accordo relative ai diritti e alle responsabilità delle entità della Bosnia Erzegovina, nonché l'Accordo di Erdut, aspettandosi così che lo stesso facciano gli altri.
In verità, sia la comunità serba degli Stati Uniti, che l'intera opinione pubblica che sta lottando oggi contro la violazione del diritto internazionale nei Balcani, si aspettavano qualcosa di più, o forse qualcosa di diverso da quanto affermato già da George Bush. Ci aspettavamo che "la speranza" di liberazione degli Stati Uniti, il grande Barack Obama, che ha conquistato l'informazione e la controinformazione, facesse il grande passo di condannare la politica degli Stati Uniti guerrafondaia nei Balcani, per segnare una nuova era. La grande rivoluzione di questo personaggio forse è tutta qui, inizia e finisce nel suo stereotipo di "Presidente di colore" che ha detto "no alla guerra in Iraq" ora che gli Stati Uniti l'hanno persa, ma che in fondo rappresenta una faccia della stessa medaglia, quella del potere delle entità economiche. Non è certo un mistero che le elezioni Presidenziali si basano su un sistema di finanziamento pubblico ai partiti, che va a creare le cosiddette "lobbies" intorno alle quali ruota l'intero programma politico del candidato e del futuro Presidente. Quelli che oggi in Europa definiamo "gruppi di interesse", "caste" o "centri di potere", negli Stati Uniti sono una forma di rappresentanza degli interessi economici, divenuti ormai parte integrante del sistema politico. Ciò significa che ogni Presidente non è espressione di un ideale politico, del volere popolare degli elettori o della personalità dell'individuo, ma è solo lo specchio delle lobbies che lo finanziano e lo portano sino ai più alti vertici del potere. Il resto, tutto ciò che vediamo negli scontri politici, è solo una grande farsa, il più grande spettacolo americano messo su, il frutto della combinazione di immagini e di stereotipi costruiti dalle società di comunicazione che gestiscono le campagne elettorali.
L'aspetto più inquietante di questa regia da colossal è che dietro ogni candidato si nascondono le stesse lobbies, le stesse società, gli stessi finanziatori, che hanno così deciso di puntare su tutti i futuri Presidenti degli Stati Uniti in egual misura, per poi lasciare alla massa la curiosità di scegliere lo stereotipo che più la rappresenta. Società, multinazionali, gruppi etnici, massonerie, banche, magnati e petrolieri, per quest'edizione del 2008 hanno deciso di scommettere pro e contro gli stessi candidati, finanziando entrambe le parti. E così vedremo che, Citigroup, JP Morgan Chase, Goldman Sachs , Morgan Stanley, nonché Lehman Brothers, Merrill Lynch, Bear Stearns, UBS sono presenti tra i principali finanziatori di tutti i candidati, per non dimenticare poi le grandi società Petrolifere, le multinazionali dell'informatica e le industrie chimiche. Le scelte politiche dei candidati diventano una mera ripetizione di quanto già stabilito agli alti vertici, senza aggiungere molto alla sostanza, se non il colorito di "apparenza" che fa il buon politico. Cosa ci si deve aspettare, dunque, da tali premesse, come possiamo immaginare che oggi la scelta di un Presidente, anziché di un altro possa cambiare o rivoluzionare il destino delle sorti del pianeta, se la sua vittoria è il frutto del volere delle stesse lobbies, degli stessi interessi, delle stesse entità economiche.
La politica ha ormai cessato di esistere, negli Stati Uniti come in Europa, e così in Italia. I partiti politici si sono sempre più amalgamati tra di loro sino ad isolare gli estremismi, e a creare i "movimenti democratici", "liberali" , "di centro" che riescano perfettamente a rappresentare l'una e l'altra faccia della lobby, e rendendo assolutamente indifferente la vittoria di un candidato rispetto all'altro. Non è dunque la politica la guida dei Governi delle democrazie, ma è il settarismo, l'associazionismo, l'accentramento di interessi economici o sociali in strutture private che vanno a manipolare il concetto di "cittadino" e di "diritto", per definire concetti come "utente" e di "interesse". Ed è in questo mare di finzione, che con la disinformazione e il marketing, vengono inondate le coscienze delle persone, che, private delle loro ideologie, scelgono quello di cui credono di aver bisogno. Nessuno tuttavia spiegherà loro che non esiste alternativa, rivoluzione o cambiamento, in un mondo che va verso il controllo delle coscienze, in un mondo cybernetico in cui le relazioni sociali sono classificate in processi matematici, e quindi ben scanditi.