La crisi finanziaria ha avuto come prima grande vittima privilegiata il settore automobilistico. Non vi sono dubbi, però, che questa grande bolla propagandistica della crisi finanziaria, costerà molto di più ai lavoratori, che alle grandi industrie. Da una parte potranno cancellare i propri debiti grazie al "fallimento assistito" o ai finanziamenti statali, e dall’altra apriranno la strada a nuove dinamiche di concentrazione dei mercati, con scalate e fusioni. ( Foto: stabilimento GM di Detroit in rovina)
È ormai certo che la crisi finanziaria ha avuto come prima grande vittima privilegiata il settore automobilistico. Comunque la si veda questa recessione dell’industria dell’automobile, le sue cause possono essere facilmente ricondotte ad una pessima gestione "diversificata" delle risorse finanziarie delle industrie, e solo in minima parte alla riduzione delle vendite, all'aumento costo della manodopera e delle materie prime. Il primo terremoto finanziario delle banche, ha inevitabilmente portato con sé nel baratro anche quelle società che avevano fatto dell’attività speculativa la loro gestione caratteristica, mentre quella produttiva era passata sicuramente in secondo piano. D’altra parte, il crollo della produzione nel mondo occidentale porterà probabilmente ad una ripresa della delocalizzazione nei Paesi che dispongono di un mercato di consumatori più ampio e di un accesso alla manodopera specializzata a basso costo, e in questo i mercati dell’est offrono interessanti scenari. I casi noti sono molti, e vanno dalla Ford e Renault in Romania, alla Fiat in Serbia, considerando che in questi mercati, la minaccia di ritorsione della crisi occidentale sugli investimenti diretti esteri, renderà i Governi più flessibili.
Non vi è alcun dubbio che questa grande bolla propagandistica della crisi finanziaria, costerà molto di più ai ceti medi e ai lavoratori, piuttosto che ai grandi magnati delle industrie che, da una parte, potranno cancellare i propri debiti sulla scia del fallimento o grazie ai finanziamenti statali, e dall’altra apriranno la strada a nuove dinamiche di concentrazione dei mercati, con scalate e fusioni. Ritornano, in questo senso, le parole dell’amministratore delegato Fiat Sergio Marchionne che, nella sua analisi sul futuro del mercato dell'automobile, ha chiaramente affermato che "fra i costruttori di massa potrebbero sopravviverne solo sei : uno statunitense, uno tedesco, uno franco-giapponese con una possibile ramificazione in Usa, uno in Giappone, uno in Cina, e infine resterebbe spazio per un altro soggetto europeo". "I costruttori potranno sopravvivere solo con una produzione superiore ai cinque milioni e mezzo di auto l'anno - continua - un target che attualmente è raggiunto a livello mondiale solo da General Motors, Toyota, Ford, Volkswagen e Renault-Nissan", afferma Marchionne. Peccato che tra quelli citati vi siano molti operatori già in grande difficoltà come GM, Ford e Volkswagen. Per cui, siamo sempre più convinti che, se il mercato lo faranno le imprese con maggiori "utenti" (consumatori), l’attuale crisi su cui si specula tanto è solo un modo per superare il fallimento e non pagare i propri debiti.
Ad ogni modo, bisogna fare le dovute distinzioni ed analizzare in maniera distinta i casi dei costruttori americani e di quelli europei. GM, Ford e Chrysler si trovano in una posizione particolarmente delicata, avendo chiesto un'assistenza da parte del Governo americano di 25 miliardi di dollari, durante la metà di novembre, e di aiuti di emergenza di 15 miliardi per questo fine settimana. GM attualmente ha bisogno di un miliardo di euro al mese, Ford di circa 700 milioni di euro; tra un po' di tempo, o almeno entro la fine dell 'anno, GM avrà bisogno di 4 miliardi di euro, e Chrysler di 7 miliardi di euro. Le voragini all'interno dei loro bilanci derivano più da una catastrofica gestione finanziaria oltre che industriale, considerando che al di là del calo delle vendite, pari forse al 40% rispetto al 2006, devono fare i conti il crack delle tecniche di finanziamento a cui hanno fatto ricorso, come ad esempio una politica di finanziamento delle pensioni estremamente costosa. Questo è il caso della General Motors, all'interno della quale è fallito il fondo pensioni dei suoi ex lavoratori e la compagnia assicurativa finanziaria, sacrificando così il comparto industriale.
Ufficialmente, tuttavia, la causa del fallimento GM è il calo dei consumi, il caro petrolio, la crisi globale. Ed infatti, poco importa ai grandi costruttori americani se il Senato approvi o meno il piano di salvataggio dell’industria automobilistica, in quanto rimane sempre la possibilità di entrare in amministrazione controllata, e dietro il fallimento, evitare di pagare i propri debiti. Resta pur sempre l'ipotesi di attingere ai fondi del piano del Tesoro da 700 miliardi di dollari destinati al salvataggio delle banche. I repubblicani sembrano comunque più favorevoli ad un passaggio al "Chapter 11", considerando che sotto la protezione del fallimento, si potrà congelare le passività sociali e finanziarie e migliorare le condizioni per una possibile ristrutturazione. Poco importa se il fallimento causerà più di 600.000 disoccupati diretti, e milioni di disoccupati indiretti, tra linee di subappalto per le forniture e distribuzione, con una perdita di redditi pari a centinaia di miliardi di dollari, oltre ad una perdita di 80 miliardi di euro. Infine, il fallimento sarebbe certamente dannoso per creditori, debitori e concessionari, con la conseguente scomparsa di clienti o fornitori comuni ad altre società. C'è dunque da decidere - come spesso accade, e l'Italia in questo senso insegna molto - tra provocare una reazione a catena dalle conseguenze disastrose, o concedere un aiuto immeritato, verso imprese gestite male, con strutture troppo grandi e non efficienti.
Occorre inoltre considerare l'impatto anche all'estero, visto che la crisi del settore automobilistico statunitense non sembra necessariamente limitata al suolo americano. Si pensi al caso della filiale tedesca di GM, Opel, cerca ora l'aiuto dei Governi dell'Europa centrale e orientale, mentre alla Germania ha già chiesto un finanziamento immediato di un miliardo di euro. Così mentre Opel ha trasferito in passato miliardi di euro alla sua società madre, GM viene meno alle sue responsabilità e continua a battere cassa anche in Europa. Lo stesso sta accadendo in Russia, dove, anche se il mercato automobilistico russo cade meno rapidamente, alcuni impianti sono fermi, come lo stabilimento Ford di San Pietroburgo. Per i lavoratori della Ford Vsevolozhsk la società ha annunciato un taglio sui salari degli operai di circa un terzo, mentre il piano di produzione per il 2009 passerà da un aumento del 2,4% (2008) ad uno del'1,9% (125.000 unità).
Allo stesso modo, sul fronte europeo non vi sono prospettive più rosee e la paura del blocco industriale sta provocando non poche distorsioni, perchè indurrà i Governi e prendere decisioni un po' troppo impulsive. In realtà, ciò a cui assistiamo sul mercato automobilistico lo abbiamo già visto con il settore bancario: la minaccia del fallimento delle banche non solo ha mobilitato i Governi e le Banche Centrali, ma ha provocato una completa riconfigurazione delle quote di mercato. Molte banche sono sparite, altre sono state accorpate in altri gruppi, ma i debiti comunque non sono stai pagati. Ancora, molti dipendenti sono stati licenziati, mentre sono cambiate le politiche del credito, la concezione del prestito-mutuo e i finanziamenti del credito al consumo. Nulla di diverso accadrà per le industrie delle automobili, le quali non si faranno scrupoli di mettere a repentaglio i propri lavoratori pur di non pagare di tasca propria i loro errori. Allo stesso tempo, chi si sentirà più forte comincerà a "mangiare" il pesce grande in difficoltà, usando la delocalizzazione come strumento di difesa, e perchè no, di finanziamento. I nuovi mercati saranno disposti ad accogliere investimenti e nuove industrie, nonchè ad offrire loro i finanziamenti attribuiti dai fondi di sviluppo europei ed internazionali, e a creare condizioni agevoli per l'insediamento. Ecco, dunque, che è iniziata la nuova corsa alla conquista del controllo dei mercati.
È ormai certo che la crisi finanziaria ha avuto come prima grande vittima privilegiata il settore automobilistico. Comunque la si veda questa recessione dell’industria dell’automobile, le sue cause possono essere facilmente ricondotte ad una pessima gestione "diversificata" delle risorse finanziarie delle industrie, e solo in minima parte alla riduzione delle vendite, all'aumento costo della manodopera e delle materie prime. Il primo terremoto finanziario delle banche, ha inevitabilmente portato con sé nel baratro anche quelle società che avevano fatto dell’attività speculativa la loro gestione caratteristica, mentre quella produttiva era passata sicuramente in secondo piano. D’altra parte, il crollo della produzione nel mondo occidentale porterà probabilmente ad una ripresa della delocalizzazione nei Paesi che dispongono di un mercato di consumatori più ampio e di un accesso alla manodopera specializzata a basso costo, e in questo i mercati dell’est offrono interessanti scenari. I casi noti sono molti, e vanno dalla Ford e Renault in Romania, alla Fiat in Serbia, considerando che in questi mercati, la minaccia di ritorsione della crisi occidentale sugli investimenti diretti esteri, renderà i Governi più flessibili.
Non vi è alcun dubbio che questa grande bolla propagandistica della crisi finanziaria, costerà molto di più ai ceti medi e ai lavoratori, piuttosto che ai grandi magnati delle industrie che, da una parte, potranno cancellare i propri debiti sulla scia del fallimento o grazie ai finanziamenti statali, e dall’altra apriranno la strada a nuove dinamiche di concentrazione dei mercati, con scalate e fusioni. Ritornano, in questo senso, le parole dell’amministratore delegato Fiat Sergio Marchionne che, nella sua analisi sul futuro del mercato dell'automobile, ha chiaramente affermato che "fra i costruttori di massa potrebbero sopravviverne solo sei : uno statunitense, uno tedesco, uno franco-giapponese con una possibile ramificazione in Usa, uno in Giappone, uno in Cina, e infine resterebbe spazio per un altro soggetto europeo". "I costruttori potranno sopravvivere solo con una produzione superiore ai cinque milioni e mezzo di auto l'anno - continua - un target che attualmente è raggiunto a livello mondiale solo da General Motors, Toyota, Ford, Volkswagen e Renault-Nissan", afferma Marchionne. Peccato che tra quelli citati vi siano molti operatori già in grande difficoltà come GM, Ford e Volkswagen. Per cui, siamo sempre più convinti che, se il mercato lo faranno le imprese con maggiori "utenti" (consumatori), l’attuale crisi su cui si specula tanto è solo un modo per superare il fallimento e non pagare i propri debiti.
Ad ogni modo, bisogna fare le dovute distinzioni ed analizzare in maniera distinta i casi dei costruttori americani e di quelli europei. GM, Ford e Chrysler si trovano in una posizione particolarmente delicata, avendo chiesto un'assistenza da parte del Governo americano di 25 miliardi di dollari, durante la metà di novembre, e di aiuti di emergenza di 15 miliardi per questo fine settimana. GM attualmente ha bisogno di un miliardo di euro al mese, Ford di circa 700 milioni di euro; tra un po' di tempo, o almeno entro la fine dell 'anno, GM avrà bisogno di 4 miliardi di euro, e Chrysler di 7 miliardi di euro. Le voragini all'interno dei loro bilanci derivano più da una catastrofica gestione finanziaria oltre che industriale, considerando che al di là del calo delle vendite, pari forse al 40% rispetto al 2006, devono fare i conti il crack delle tecniche di finanziamento a cui hanno fatto ricorso, come ad esempio una politica di finanziamento delle pensioni estremamente costosa. Questo è il caso della General Motors, all'interno della quale è fallito il fondo pensioni dei suoi ex lavoratori e la compagnia assicurativa finanziaria, sacrificando così il comparto industriale.
Ufficialmente, tuttavia, la causa del fallimento GM è il calo dei consumi, il caro petrolio, la crisi globale. Ed infatti, poco importa ai grandi costruttori americani se il Senato approvi o meno il piano di salvataggio dell’industria automobilistica, in quanto rimane sempre la possibilità di entrare in amministrazione controllata, e dietro il fallimento, evitare di pagare i propri debiti. Resta pur sempre l'ipotesi di attingere ai fondi del piano del Tesoro da 700 miliardi di dollari destinati al salvataggio delle banche. I repubblicani sembrano comunque più favorevoli ad un passaggio al "Chapter 11", considerando che sotto la protezione del fallimento, si potrà congelare le passività sociali e finanziarie e migliorare le condizioni per una possibile ristrutturazione. Poco importa se il fallimento causerà più di 600.000 disoccupati diretti, e milioni di disoccupati indiretti, tra linee di subappalto per le forniture e distribuzione, con una perdita di redditi pari a centinaia di miliardi di dollari, oltre ad una perdita di 80 miliardi di euro. Infine, il fallimento sarebbe certamente dannoso per creditori, debitori e concessionari, con la conseguente scomparsa di clienti o fornitori comuni ad altre società. C'è dunque da decidere - come spesso accade, e l'Italia in questo senso insegna molto - tra provocare una reazione a catena dalle conseguenze disastrose, o concedere un aiuto immeritato, verso imprese gestite male, con strutture troppo grandi e non efficienti.
Occorre inoltre considerare l'impatto anche all'estero, visto che la crisi del settore automobilistico statunitense non sembra necessariamente limitata al suolo americano. Si pensi al caso della filiale tedesca di GM, Opel, cerca ora l'aiuto dei Governi dell'Europa centrale e orientale, mentre alla Germania ha già chiesto un finanziamento immediato di un miliardo di euro. Così mentre Opel ha trasferito in passato miliardi di euro alla sua società madre, GM viene meno alle sue responsabilità e continua a battere cassa anche in Europa. Lo stesso sta accadendo in Russia, dove, anche se il mercato automobilistico russo cade meno rapidamente, alcuni impianti sono fermi, come lo stabilimento Ford di San Pietroburgo. Per i lavoratori della Ford Vsevolozhsk la società ha annunciato un taglio sui salari degli operai di circa un terzo, mentre il piano di produzione per il 2009 passerà da un aumento del 2,4% (2008) ad uno del'1,9% (125.000 unità).
Allo stesso modo, sul fronte europeo non vi sono prospettive più rosee e la paura del blocco industriale sta provocando non poche distorsioni, perchè indurrà i Governi e prendere decisioni un po' troppo impulsive. In realtà, ciò a cui assistiamo sul mercato automobilistico lo abbiamo già visto con il settore bancario: la minaccia del fallimento delle banche non solo ha mobilitato i Governi e le Banche Centrali, ma ha provocato una completa riconfigurazione delle quote di mercato. Molte banche sono sparite, altre sono state accorpate in altri gruppi, ma i debiti comunque non sono stai pagati. Ancora, molti dipendenti sono stati licenziati, mentre sono cambiate le politiche del credito, la concezione del prestito-mutuo e i finanziamenti del credito al consumo. Nulla di diverso accadrà per le industrie delle automobili, le quali non si faranno scrupoli di mettere a repentaglio i propri lavoratori pur di non pagare di tasca propria i loro errori. Allo stesso tempo, chi si sentirà più forte comincerà a "mangiare" il pesce grande in difficoltà, usando la delocalizzazione come strumento di difesa, e perchè no, di finanziamento. I nuovi mercati saranno disposti ad accogliere investimenti e nuove industrie, nonchè ad offrire loro i finanziamenti attribuiti dai fondi di sviluppo europei ed internazionali, e a creare condizioni agevoli per l'insediamento. Ecco, dunque, che è iniziata la nuova corsa alla conquista del controllo dei mercati.