Motore di ricerca

19 dicembre 2008

Recessione e deflazione: l'industria rischia il blocco


Dopo lo scoppio della bolla dell’inflazione, siamo dinanzi al pericolo della contrazione deflazionistica derivante dalla recessione. Gli Stati Uniti hanno già preso una prima posizione, decidendo di azzerare i tassi della Fed e dei Fed Funds, per rilanciare investimenti e consumi. Dall'altra parte, il cartello dell'OPEC ha deciso di contrarre la produzione di petrolio per sostenere i prezzi. Entrambe le misure possono essere efficaci nel breve periodo, ma lo saranno anche tra alcuni mesi?

I primi segnali del tracollo del prezzo del petrolio e del dollaro non sono bastati a mettere in allarme le Banche Centrali e i Governi sull’immediato cambiamento dello scenario economico. La bolla dell’inflazione è subito scoppiata, e ora siamo dinanzi al pericolo della contrazione deflazionistica derivante dalla recessione in cui l’economia è entrata. In realtà gli Stati Uniti sono già nell’occhio del ciclone della deflazione, dopo che nel mese di ottobre si è assistito ad un calo dell'1% dei prezzi al consumo, la più alta che sia stata mai registrata su base mensile in questi ultimi sessant’anni. I prezzi al consumo sono diminuiti quasi della metà, mentre le quotazioni immobiliari, dopo un crollo del 17% in un anno negli Stati Uniti, cominciano a ridursi anche in Europa dopo la crescita incontrollata di soli pochi mesi fa. L’iperinflazione ha infatti reso domanda e offerta eccessivamente sensibili, creando speculazioni e bolle finanziarie destinate a mantenere sollevato solo artificialmente il mercato. Questa fase è stata, tuttavia, solo temporanea in quanto dopo pochi mesi si sono azionate le dinamiche di stagflazione, che hanno invertito i processi dell’inflazione: l’aumento dei prezzi non ha spinto ad un aumento della produzione in quanto la domanda si è rallentata sempre di più, considerando che il potere d’acquisto dei salari non è cresciuto di conseguenza. L’indebitamento generalizzato delle persone e delle imprese, se in una prima fase ha alimentato un consumismo sfrenato, successivamente ha avuto un’onda d’urto spaventosa.

Ed è proprio il blocco della produzione e la liquidazione dei debiti a creare questa spinta deflazionistica. Gli operatori economici sono troppo indebitati e vendono i loro beni a basso prezzo, mentre, dall’altra parte, difficilmente troveranno qualcuno disposto ad acquistarli, in quanto l’accesso al credito è scarso e manca liquidità nelle casse dei Governo e delle imprese. Pian piano le persone vedono i propri beni svalutarsi con il logorio della riduzione dei prezzi generalizzata, e dunque le proprietà, le case, le auto perdono man mano il loro valore, dopo che lo stesso mercato le aveva sopravvalutate. A questo punto però subentra un’altra dinamica, che è quella psicologica del consumatore, che continua a rinviare i propri acquisti per via della crisi o perché spera che si riducano ancora di più, e delle imprese, che rinviano gli investimenti o le assunzioni, perché temono delle conseguenze rischiose o sperano di ottenere manodopera a più basso prezzo. La caduta dei prezzi aumenta, inoltre, anche l'onere del debito, che, quando i prezzi diminuiscono, è sempre troppo costoso. Ed è proprio sul costo del debito che le Istituzioni finanziarie possono far leva, in maniera da annullare anche il costo del denaro, il quale dovrebbe divenire neutrale rispetto alla dinamica degli acquisti. In tale direzione va la decisione del Governatore della Federal Reserve Ben Bernanke, che ha deciso di azzerare i tassi della Fed e dei Fed Funds ( il tasso del mercato interbancario americano ) stabilendo una forchetta che va dallo zero allo 0,25%, proprio come fece la Banca del Giappone (Boj) negli anni ’90 portando il costo del denaro a quota zero . Allo stesso tempo, annuncia che la Federal Reserve acquisterà titoli pubblici a più lungo termine, al fine di stabilizzare anche in futuro i tassi di interessante, riducendo l'aspettativa di un rialzo nei mesi successivi. Tuttavia, come la storia recente insegna, tali misure possono rivelarsi anche inefficaci, come accaduto in Giappone, che dopo una breve ripresa dell’economia è caduto di nuovo nella spirale deflazionistica, sulla spinta delle dinamiche globali.

A muoversi contro la deflazione, sono anche i produttori di petrolio che, allarmati dalla continua riduzione della quotazione del barile di greggio, hanno ufficialmente annunciato un calo della produzione di 2,2 milioni di barili al giorno, mentre a partire da settembre l’offerta di petrolio sarà pari a 4,2 milioni di barili. A muoversi con l’OPEC è anche la Russia, che annuncia una riduzione di 485-488 milioni di tonnellate entro la fine del 2008, decidendo di non aderire al cartello - in quanto il suo meccanismo non è direttamente applicabile alla Russia - e di limitarsi alla semplice stabilizzazione della produzione. Riteniamo, però, opportuno osservare che questa contrazione del prezzo del petrolio non dipende dal mercato del petrolio, bensì da quello della produzione e dell’economia reale. Se il prezzo del petrolio diminuisce è perché si sta riducendo la domanda, e non perché c’è un’eccessiva offerta che va a rendere il prezzo della materia prima più conveniente. Come l’aumento del costo del greggio era stato indotto, nei mesi scorsi, dalla speculazione del dollaro, così oggi la sua riduzione deriva da dinamiche esterne, come la riduzione degli acquisti a causa del rallentamento dell’economia, o magari della stessa crisi, che spinge gli Stati ad utilizzare maggiormente le proprie scorte o fonti di energia diverse. Il rallentamento della produzione industriale non è da sottovalutare, considerando che rappresenta il risultato di una dinamica che, a catena, coinvolge molti settori. Basta prendere in considerazione il blocco del settore automobilistico, che ha provocato non solo la riduzione della produzione di veicoli, ma anche delle componenti, della distribuzione e dunque della logistica, per non parlare dell’impatto sul settore siderurgico ed estrattivo. Proviamo adesso a sommare il calo di produzione di ogni settore, e a moltiplicarlo per la relativa domanda di energia: otterremmo di conseguenza una riduzione degli acquisti di petrolio. Solo l’industria dell’acciaio ha ridotto la sua produzione del 20%, con maggiori conseguenze per la Cina (-12%) e il Nord America (-38,4%), per un volume di 89 milioni di tonnellate. La crescita della produzione nei primi undici mesi del 2008 è stata ridotta allo 0,9%, pari a 1,224 miliardi di tonnellate, secondo il World Steel Association (ex International Iron and Steel Institute, IISI). Il calo ha raggiunto il 24,8% nell'Unione europea, 16,1% nel resto d'Europa, 17,8% in Sud America, il 35% in Africa e 9,2% in Oceania. E così, mentre il gigante dell'acciaio Arcelor Mittal sta progettando significativi tagli e riduzioni significative nella produzione, il gruppo svedese SSAB (acciai speciali) ha recentemente annunciato che si sarebbe eliminare 1.300 posti di lavoro a causa del forte rallentamento della domanda.

Ciò premesso, i cari produttori di petrolio potranno solo contenere nel breve periodo le loro perdite, ma se non vi sarà una ripresa dell’industria, non ripartirà neanche il mercato del petrolio. In tal senso, forse la Russia ha preso una saggia decisione nel non aderire al cartello e di mantenere una propria indipendenza, in quanto in questo modo avrà la possibilità di negoziare sulle singole trattative a seconda della reale domanda. Ad ogni modo, è in questa fase delicata per le economie dei Paesi più industrializzati e di quelli in via di sviluppo, agire sugli investimenti energetici, in particolar modo nelle fonti rinnovabili. In tal modo sarà possibile far ripartire la produzione industriale, creare occupazione e dare ossigeno all’intero sistema del credito e del consumo. Si potrà anche frenare quelle dinamiche di deflazione indotte dalla "svendita" delle risorse e dei beni, in quanto si andrà a creare una prospettiva futura di crescita.