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18 ottobre 2007

Rischio derivati o rischio collaterali?


La crisi del mercato finanziario ha avuto la sua eco non solo sulle borse e sui bilanci delle grandi Banche d'affari, ma anche sulle piccole e medie imprese ed ora anche sugli enti pubblici. Da un'inchiesta giornalistica emerge una realtà che Istituzioni, Banche e inquirenti conoscevano bene ma è stata sempre camuffata dalla disinformazione e dal silenzio, complice delle lobbies che si impadroniscono pian piano del nostro sistema economico.


Dal censimento ministeriale ordinato dalla Banca d'Italia sullo stato di indebitamento degli enti pubblici nei confronti del mercato finanziario, emerge una situazione di grave disagio e crisi finanziaria che lancia così un ulteriore allarme sullo stato dell'economia italiana e del mercato borsistico. Secondo i dati pervenuti al Ministero dell'Economia, nel 2004, su 149 enti pubblici esposti per un indebitamento complessivo di 1,87 miliardi di euro in swap, che costituisce il 40% del totale dell'indebitamento, per poi raggiungere un'esposizione complessiva finanziaria pari a 10 miliardi. Un dato questo che mostra la grave patologia del sistema di finanziamento del fabbisogno pubblico delle amministrazioni locali, che, in piena crisi di liquidità - o meglio di trasferimenti da parte del governo centrale - hanno fatto ricorso alla cd. finanza creativa, come stabilito dal decreto legislativo 267/2000 che ha sancito il diritto degli enti pubblici di ricorrere al mercato finanziario "nelle forme consentite dalla legge". Tale normativa è stata poi ripresa dalla Finanziaria 2002, con la Legge 448/2001, per poi fissare dei parametri economici che hanno limitato la tipologia delle operazioni che potevano essere poste in essere, il ricorso al finanziamento mediante swap e l'ammontare delle operazioni, stabilendo inoltre l'obbligo di una semplice comunicazione da inviare al Ministero del Tesoro per consentire la convalida dell'operazione. Quando tale norma fu inclusa nella finanziaria, nessuno vide in essa alcun pericolo, tuttavia oggi, a distanza di tempo vediamo come la finanza abbia lacerato la già precaria sostenibilità del bilancio degli enti pubblici, peggiorata dai tagli dei trasferimenti dello Stato. Non è infatti la prima volta che si scopre che degli investimenti finanziari hanno indebitato gli enti pubblici al punto da farli divenire delle società per azioni, nelle mani delle Banche.
Per cui, gli enti, spinti dalla mancanza di liquidità o di fondi per finanziare opere pubbliche e bilancio corrente, hanno cominciato a rivolgersi alle banche per investire in swap e derivati parte del budget pubblico, nella speranza di ottenere in cambio dei grossi introiti.
Presso le banche hanno trovato brokers e intermediari che hanno consigliato di coprire "il rischio del rialzo dei tassi di interesse" mediante titoli derivati, prendendo nelle loro mani la gestione di titoli e procedure spesso troppo complesse. Si tratta spesso di titoli basati su di una "scommessa finanziaria" sul probabile rialzo o riduzione dei tassi di interesse registrato entro una certa data: l'avverarsi della condizione decide così la "vincita" o la "perdita" dell'investimento. Secondo i controlli effettuati successivamente, si è scoperto che la maggior parte dei titoli contratti che prevedevano un intervallo di tassi minimo e massimo fuori dal quale l'investitore perde i guadagni; recentemente questi tipo di derivati sono divenuti sempre più aleatori, con intervalli di oscillazione sempre più limitati a fronte di elevati guadagni. Le condizioni spesso molto redditizie garantite, trasforma questi titoli in veri e propri investimenti speculativi che mettono a repentaglio la stabilità dei bilanci delle piccole imprese e degli enti.
La volatilità dei titoli, in certi casi, è così elevata che occorre riformulare la loro denominazione, e dunque non derivati ma "collaterali" , ossia titoli obbligazionari ad alto rischio, spesso posizionati sul mercato senza avere alle spalle una reale copertura, essendo solo titoli virtuali. Molto probabilmente, ciò che ha mandato in panne il sistema, non è stato il semplice "swap" o la denuncia da parte di alcuni media del "mal costume" del finanziamento tramite derivati, ma qualcosa di molto più grave. Infatti, se all'improvviso sul mercato finanziario cominciasse a circolare la voce che i collaterali sui quali abbiamo investito oppure abbiamo capitalizzato ( in maniera fittizia ) la società - o ancora con i quali abbiamo gonfiato il bilancio dell'ente per guadagnare il consenso elettorale - sono falsi o non valgono nulla , nessuno vorrebbe più comprarli o tenerli in portafoglio. Il rischio derivati, di cui si è tanto parlato, non è la solita tornata di speculazione finanziaria, bensì è qualcosa di più grande, perché compromette la credibilità del mercato e della banca stessa che ha fatto da intermediario.
Nello scandalo dei derivati, sono state coinvolte diverse Banche, molte di queste straniere, e una tra tutti è la Banca Unicredit, che ha dovuto così giustificare la massiccia presenza nei suoi assets di titoli sottoscritti da enti pubblici, divenuti poi sovraindebitati. Alle accuse di negligenza e di condotta fraudolenta al fine di truffare le amministrazioni locali, la Unicredit si difende dicendo che "la maggior parte dei clienti aveva una visione chiara di quello che stava comprando, e oggi magari fa anche comodo dire che non sapeva cosa stava comprando". Ma oggi più dell'8% della base della clientela corporate che ha comprato questi strumenti si trova in perdita, per un totale di circa un miliardo di euro su derivati. Dopo l'inchiesta del Tribunale di Torino che ha condannato la Unicredit di risarcire due imprese dei danni subiti a causa degli investimenti in titoli, anche la Consob e il Ministero hanno chiesto di controllare gli asset bancari, a cominciare dall'esposizione sui mutui subprimes. UniCredit ha confermato un'esposizione di circa 277 milioni di euro ripartiti in 127 milioni in "Us residential mortgage backed securities" e 139 milioni in "collateralized debt obligations" . Non vi sono dunque dubbi che la Banca Unicredit ha nel suo asset bancario dei titoli collaterali, che segnalano l'esistenza di operazioni speculative che hanno alla base strumenti finanziari altamente rischiosi ma inesistenti. Titoli, nella maggior parte dei casi falsi, denominati per milioni di dollari, che vengono posti a garanzia di operazioni societarie o di ricapitalizzazioni, venduti sul mercato con la garanzia di raddoppiare l'investimento iniziale.
Inoltre, tale notizia - che sembra essere stata strappata alla Unicredit - smentisce in parte anche i dati trasmessi da Bankitalia nel suo Bollettino Economico, secondo i quali l'esposizione a rischio subprimes delle Banche Italiane è quasi inesistente, ma il canale del credito è comunque compromesso dalla "mancanza di fiducia nel mercato finanziario internazionale".

Questa situazione ha di per sé dei tratti assurdi, in quando vediamo con mano i danni degli investimenti speculativi delle piccole imprese e degli enti, sotto il coordinamento e l'intermediazione delle grandi Banche, che continuano a negare l'evidenza. Negano di avere titoli subprimes, poi si scopre non solo che li hanno, ma anche che possiedono negli assets dei collaterali. La Banca d'Italia, a sua volta, protegge il sistema bancario italiano, ma non punisce gli operatori che hanno deliberatamente truffato imprese e investitori. Per giunta, annuncia la prossima stretta del credito per far fronte al cambiamento delle esigenze del nuovo mercato finanziario. Per cui, da quanto accaduto, potremmo trarre ulteriori conclusioni per disfare del tutto la tela di disinformazione che è stata creata. Innanzitutto, dunque, quella che abbiamo chiamato fino ad oggi "crisi dei mutui subprimes" è in realtà la crisi dei titoli collaterali, di per sé inesistenti, che consentono di costruire piramidi e trasferimenti fittizi, ma non hanno alle spalle alcun valore o reale garanzia. Ciò significa, inoltre, che la famosa crisi di liquidità non rappresenta una conseguenza del fallimento del mercato valutario o bancario, ma ne è la causa, in quanto sono le Banche stesse o gli investitori che creano delle catene false di titoli per rastrellare capitali e recuperare circolante. Infine, la crisi del credito non è una causa, come hanno voluto far credere, ma è una conseguenza, in quanto ora che si è scoperto la fonte della liquidità del mercato, si chiuderanno i rubinetti nel mercato interbancario, sottraendo fondi alle famiglie e alle imprese. Ecco dunque le tre grandi bugie sulle quali ancora oggi continuano a costruire campagne di disinformazione, per proteggere le Banche e impedire che perdano credibilità.