Un bilancio incerto sino alla fine quello delle vittime del duplice attentato che domenica ha scosso Istanbul, colpita due volte in rapida successione nel cuore commerciale di Gungoren, quartiere situato nella parte europea. Il numero dei morti è salito a 18 - gli ultimi due deceduti in ospedale – mentre quello dei feriti tocca ormai la quota 160. Un aggiornamento che si fa sempre più difficile proprio per le gravità dello stato in cui versano molti dei feriti, la maggior parte vittime della seconda esplosione, quella più potente. Come affermato da un testimone all’agenzia Associated Press, “la prima deflagrazione non è stata particolarmente violenta e molte persone sono accorse sul posto per vedere cosa fosse successo, finendo per essere travolte dallo scoppio del secondo ordigno”. A ventiquattrore dal duplice attentato le autorità della città sul Bosforo cominciano a tracciare piste ed escluderne altre: “Si tratta di un attacco terroristico – ha commentato il governatore di Istanbul, Muammer Guler – gli ordigni erano stati collocati nei raccoglitori dell’immondizia. È pertanto esclusa qualsiasi ipotesi di attentato suicida”. Nessun attacco kamikaze, insomma, come alcune fonti avevano in un primo momento riportato. Resta da chiarire, e non sarà facile, la matrice. Guler è stato cauto: “Non disponiamo ancora di informazioni sull’organizzazione che ne è responsabile”. Eppure sin dalle prime ore dopo l’attentato il dito è stato puntato sulla matrice curda. Fin troppo velocemente, le autorità di polizia hanno collegato l’atto terroristico al PKK, il Partito dei lavoratori del Kurdistan la cui sopravvivenza è messa a dura prova dalle incursioni delle Forze Armate turche ormai ufficialmente impegnate anche oltre il confine della Turchia, nelle aree irachene a maggioranza curda.
L’offensiva su larga scala contro la guerriglia del PKK, a detta di molti analisti, avrebbe potuto scatenare la reazione. Nulla di sorprendente: la guerriglia curda è stata già protagonista nel passato di attentati contro i civili, al punto che anche lo stesso Guler, seppure con tutte le cautele del caso, non si è sottratto all’ipotesi di un “certo legame tra l’accaduto ed il PKK”. Il coinvolgimento dei curdi è stato messo in relazione al bombardamento di alcune postazioni dei separatisti nel nord dell’Iraq da parte dell’aviazione di Ankara, avvenuta appena poche ore prima dell’esplosione. Nonostante le evidenti incertezze, la stampa turca ieri ha insistito sulla presunta matrice curda e l’opinione pubblica sembra essere orientata verso la pista che conduce al PKK. Ma sempre ieri, in mattinata, è giunta la secca smentita della dirigenza separatista. Tra tutte hanno un certo peso e credibilità le parole di Zubeyir Aydar, ex deputato curdo al parlamento turco. “Si tratta di un incidente dai contorni oscuri. Questo episodio non ha nulla a che vedere con la lotta per la libertà portata avanti dal popolo curdo. Non può essere fatta alcuna connessione con il PKK”, ha dichiarato l’attuale dirigente della sezione Politica del partito dei lavoratori del Kurdistan interpellato dall’agenzia pro curda Firat. La guerriglia nega con forza qualsiasi coinvolgimento nei fatti di Gungoren. Difficile dubitarne, anche perché gli attentati a firma curda sono sempre seguiti da una rivendicazione di responsabilità, e non il contrario come in questa occasione.
Più facile, per gli inquirenti, guardare in casa. Le antenne sono puntate in particolare sull’apertura, proprio ieri, del procedimento a carico del partito di governo, l’AKP, di cui fanno parte sia il primo ministro Recep Tayyp Erdogan, sia il presidente Abdullah Gul. L’accusa al vaglio della Corte costituzionale di Ankara è quella di aver svolto attività politiche contrarie alla laicità dello Stato, fondamento della Repubblica di Turchia. L’AKP, infatti, nasce e si muove su binari dichiaratamente confessionali e per la laicissima Turchia ciò si può tradurre nel tentativo di attentare all’unità statale. Gli atti terroristici potrebbero essere un monito all’indirizzo della suprema magistratura turca, ma anche delle Forze Armate che negli ultimi anni, dall’alto della loro funzione costituzionale di garanti della laicità dello Stato, hanno più volte rischiato la collisione con il potere esecutivo. Il copione non scritto potrebbe avere dei risvolti da manuale della dietrologia, con i settanta alti dirigenti dell’AKP sotto accusa, Erdogan e Gul compresi, pronti a tutto pur di mantenere la guida del Paese, anche a provocare uno stato di emergenza che rimandi a data da destinarsi la sentenza dell’Alta Corte. Un gioco vecchio ma scontato, quello di provocare tensione per evitare la catastrofe.
Eppure non regge: sono proprio loro, i dirigenti dell’AKP, i meno interessati a provocare un’instabilità interna che allontanerebbe inevitabilmente il sogno europeo covato a lungo proprio grazie agli sforzi di Erdogan e di Gul. L’appello all’unità lanciato dal primo ministro assomiglia più ad un’esortazione a non gettare a mare anni di trattative con l’Unione europea che ad un messaggio cifrato ai rivali della linea laica. Resta in piedi un’ultima possibilità, forse la più probabile, ovvero che oggi come nel 2003 – quando una serie di attentati colpirono sempre Istanbul provocando una sessantina di morti – si tratti di un attacco pianificato da nuclei terroristi di matrice islamica che nulla hanno a che vedere con l’istituzionale AKP. Schegge senza controllo che tentano di destabilizzare la Turchia con il duplice fine di abbattere i fondamenti laici della Repubblica e ridimensionare la portata politica degli islamici moderati. In una parola: fondamentalisti.
Rinascita