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01 ottobre 2008

Il Kosovo nove anni dopo: intervista a Riccardo Iacona


Con il suo documentario "La guerra infinita" , Riccardo Iacona, giornalista e reporter della RAI, porta sul grande schermo italiano i retroscena del dopoguerra balcanico, segnato dai crimini compiuti nei confronti dei serbi del Kosovo. Un conflitto senza fine, che non è mai cessato e che non è mai stata raccontata nella sua complessità e nella sua violenza. In un'intervista rilasciata per Rinascita Balcanica, Riccardo Iacona traccia un quadro del Kosovo di ieri e di oggi, visto con gli occhi di chi cerca la verità.

Dopo il conflitto del 1999 sul territorio della ex Jugoslavia, l’intervento militare della Nato è stato seguito da un protettorato ONU in Kosovo, durante il quale sono stati cacciati circa 250.000 serbi sotto gli occhi dell’intera Comunità Internazionale. Secondo lei, il ruolo delle Nazioni Unite è stato in qualche modo screditato dalla Nato?
Credo che anche l’Onu ha avuto delle difficoltà oggettive ad amministrare il territorio del Kosovo con i suoi tribunali e i suoi organismi burocratici, come la stessa Nato che si è occupata più un controllo militare e dell’ordine pubblico all'interno del territorio. Entrambe non hanno saputo far fronte alla situazione kosovara, né dal punto di vista amministrativo né militare. Anche perché si tratta di missioni umanitarie internazionali che, nonostante si prefiggano come obiettivo quello di risolvere ogni tipo di problema, e poi, per non avere difficoltà, trovano un accordo con i poteri forti del luogo, ed in generale con chi controlla il territorio. Per loro è più importante garantire la sicurezza dei loro soldati, e dunque mantenere l’ambiente formalmente tranquillo, piuttosto che entrate in conflitto con le organizzazioni criminali locali, le quali, in effetti, hanno compiuto una pulizia etnica tra la popolazione serba.

Quindi lei conferma che vi è stata una pulizia etnica dei serbi del Kosovo?
Certo, e lo abbiamo anche documentato, soprattutto nei primi 40 minuti, in cui vi è una concentrazione della documentazione abbastanza minuziosa, persino insistita. Molti mi hanno scritto dicendo che "questa parte del documentario è insopportabile da punto di vista emotivo". Ovviamente, se in pochi minuti si riassumono le violenze compiute per più di nove anni, al fine di riempire un "buco" dell’informazione, il risultato dà una certa impressione. Tutto questo però è accaduto in nove anni di amministrazione ONU e Nato, il che è ancora più grave. Mentre nei primi tempi, dopo il 1999, era immaginabile la fuga dei serbi che avevano ricoperto dei ruoli all’interno delle amministrazioni e magari si erano anche "sporcati le mani di sangue" - come spesso affermano - e per paura di ritorsioni e vendette hanno lasciato la provincia, non è tollerabile che questi crimini siano stati fatto quando la Nato ha assicurato una certa sicurezza nella regione ed era già cominciata la ricostruzione. Lei sa che i serbi hanno bruciato le case degli albanesi durante la guerra, e quelle stesse abitazioni sono state ricostruite con i fondi internazionali, ma ciò non è avvenuto nei confronti dei serbi.

Come lei diceva, vi è un "buco" di informazione sulla Guerra nei Balcani. Lei crede che i media abbiano manipolato le informazioni stravolgendo così la cronaca degli eventi?
La guerra porta sempre con sé questo tipo di distorsioni, quale essa sia e ovunque si scateni: è sempre una guerra contro l’informazione. Non esistono guerre che non mettano sotto controllo l’informazione, rendendo quasi impossibile l’esercizio di quella informazione indipendente. Quando c’è una guerra bisogna schierarsi da qualche parte, se non altro per garantire la sicurezza dei giornalisti in pieno conflitto, e poi si cerca in una seconda fase di raccontare "in filigrana" la complessità degli eventi. Ma se c’è una cosa che gli apparati militari pianificano, sia nella fase di preparazione che di esecuzione delle guerre, è proprio l’informazione. Successivamente, una volta che la guerra è vinta, si tratta solo di controllare il territorio e di limitare la libertà dei giornalisti. Quando vi è una guerra è davvero complicato fare una buona informazione.

LA GUERRA INFINITA

Il suo servizio analizza in maniera particolare anche il processo di Ramush Haradinaj, durante il quale molti testimoni sono stati uccisi oppure si sono ritirati. Secondo lei, la giustizia del Tribunale dell’Aja è stata ancora una volta cieca?
Può darsi che non vi erano abbastanza prove per condannare Haradinaj, come dimostrato dal fatto che è stata presentata una richiesta di appello; oppure le attività investigative portate avanti dal pubblico ministero non siano state abbastanza precise, o eventualmente facevano troppo affidamento a quelle testimonianze che poi sono venute meno, considerando che alcuni testimoni hanno avuto paura mentre altri sono morti. E’ una questione molto complessa e difficile da ricostruire, anche in considerazione del fatto che molte prove sono andate perse. Da una parte l’Aja si comporta come tutti i tribunali delle società moderne, che hanno bisogno di forti prove per arrivare ad una condanna definitiva. Dall’altra non si può nascondere che una condanna di Haradinaj avrebbe messo in serie difficoltà la Nato. Vi sono molte ipotesi a questo riguardo, ma preferisco non cadere nel "complottismo" e guardare gli eventi nella sua oggettività, e, in questo caso, il dato oggettivo è che l’assoluzione di Haradinaj è del tutto provvisoria, visto che è in corso un processo di appello.

Grazie al suo approfondito reportage, è stato possibile far luce sul conflitto irrisolto tra l’Armata per la liberazione del Kosovo (UCK) e le Forze armate nazionali del Kosovo (FARK). L’opinione pubblica internazionale non sapeva, infatti, che vi era una sorta di guerra tra gli stessi albanesi. Secondo lei, la guerra UCK-Fark è stata combattuta per la droga o per l’indipendenza?
Credo che sia stata una guerra per il controllo politico, il quale poi dà anche controllo del territorio. Sicuramente è stata una guerra rapida, senza esclusione di colpi, ma soprattutto combattuta nell’impunità, la cosa più grave. Sappiamo bene come le organizzazioni criminali controllano il territorio, visto che in certe fasi della nostra storia, la "mafia" è riuscita a mettere sotto scacco persino lo Stato italiano, e dunque non una semplice provincia che è diventata indipendente da poco. Quindi conosciamo cosa significa "controllo mafioso" del territorio, e sappiamo anche che, l’unico modo per combatterlo, è avere una giustizia che colpisce e una politica che non accetta la commistione con la mafia. Condizioni che sono ben lontane dall’attuale situazione in Kosovo. La giustizia delle Nazioni Unite è fragile, è fatta da magistrati che operano sul territorio per poco tempo, che provengono da decine di Paesi diversi (vi sono per esempio magistrati del Marocco), mentre le inchieste di mafia richiedono un coordinamento efficace e delle prolungate indagini. Come si può sperare di combattere la mafia sul suolo albanese con strumenti così limitati? E’ una battaglia persa in partenza.

Ad ogni modo, a distanza di anni, è stato possibile dimostrare - anche attraverso il suo servizio - che l’Uck ha compiuto dei crimini contro gli stessi kosovari, che invece erano stati addebitati all’esercito serbo.
Certo, ma oltre a questo reportage, è importante notare che vi è stata una sentenza dell’Aja contro Daut Haradinaj. Anche se è stato condannato a soli 5 anni di detenzione, questa sentenza rappresenta sempre un dato importante, considerando che è un verdetto di primo e di secondo grado. Daut Haradinaj, e così anche l’UCK, è stato dichiarato colpevole di aver sequestrato quattro persone, i cui corpi senza vita sono stati ritrovati in un pozzo all’indomani della fine della guerra, dopo essere stati torturati e uccisi a colpi di kalashnikov. Dopodichè, per tutto ciò che è accaduto dopo, come la sparizione dei testimoni o l’omicidio di molti poliziotti, non vi è alcuna verità giudiziaria, tranne la sentenza di primo grado per l’assassinio di
Sebahate Tolaj, che ha indicato come colpevole la guardia del corpo di Ramush Haradinaj. Questo, tuttavia, non basta a condannare lo stesso Ramush Haradinaj, che è al momento un uomo libero che fa politica e, oltre al probabile processo di appello, non ha altre pendenze con la giustizia.

Come giornalista, che è stato in queste terre e ha visto da vicino la realtà dei fatti, che effetto farà vedere un politico italiano stringere la mano ad Haradinaj?
Ramush Haradinaj è semplicemente il capo del Partito dell'Alleanza (AAK) che non appartiene neanche alla coalizione di Governo costituita dal partito di Thaci (PDK) e il vecchio partito di Rugova (LDK). Ad ogni modo l’Italia si sta muovendo in maniera molto cauta, considerando che sta portando avanti una politica diplomatica in Europa a sostegno della richiesta serba di avere un parere della legittimità dell’indipendenza del Kosovo presso la Corte di Giustizia delle Nazioni Unite. Inoltre, si stanno firmando dei contratti a Belgrado, e l'Italia promuove l’ingresso della Serbia nell’Unione Europea. In generale, sono tutti molto più cauti, anche chi ha appoggiato l’indipendenza del Kosovo e l'ha subito ratificato. Si presta, dunque, molta attenzione a ciò che sta accadendo, anche perché il caso kosovaro è stato subito utilizzato dalla Russia per chiedere l’indipendenza di Ossezia del Sud e Abkhazia, con un meccanismo molto pericoloso, in quanto potrebbe azionare una forza centrifuga che andrebbe a provocare chissà quante altre separazioni nel mondo. E si sa, quando le separazioni non sono consensuali, producono conflitti anche duraturi e persistenti, perché hanno a che fare con "la roba", con le terre, per cui vi è sempre qualcuno che viene cacciato e perde tutto, e chi ha la meglio.
Dunque l’Italia sta giocando un ruolo diplomatico più attento, non solo nel breve termine ma anche in un futuro più lontano, cercando di non prendere una posizione di parte. Si parla ora anche di "partizione" di Mitrovica Nord, come accennato dal Presidente Tadic, in maniera da porre la restante comunità serba sotto la giurisdizione di Belgrado, distinta dal Kosovo indipendente. Ciò significa che la partita non è assolutamente chiusa, come si riteneva a febbraio, ma che anzi è tutta da giocare.

La partita dunque è ancora aperta...
Assolutamente. La questione è ancora aperta, per fortuna - direi - in quanto nessuno vuole che si venga a creare un nuovo conflitto nella regione della ex Jugoslavia. Ci si augura che tali questioni trovino una soluzione sul tavolo delle trattative, e la stessa integrazione europea dei Balcani Occidentali è una fase importante per la pacificazione. Anche perché, come abbiamo potuto riscontrare sul territorio, quando un’operazione militare non è accompagnata da una giusta politica diplomatica, rischia di riprodurre le ingiustizie per la quale era cominciata. La Nato, infatti, si era prefissata di impedire che i serbi facessero "carne da macello" dei kosovari, e ora ci ritroviamo un Kosovo che è quasi "pulito etnicamente". Vi è stata così un’assoluta mancanza di "Politica", e non sono questioni irrisolvibili che non possono essere discusse ad un tavolo diplomatico.

Con una provincia kosovara più indipendente rispetto alla Serbia, vi è stata una progressiva diffusione del fondamentalismo islamico, ciò in relazione al fatto che sono giunti in Kosovo molti fondi e finanziamenti dall’Arabia Saudita. Lei crede che il Kosovo possa trasformarsi in una minaccia per l’Europa?
Non necessariamente, fermo restando che la diffusione del fondamentalismo arretra l’evoluzione sociale dello Stato del Kosovo. D’altronde è un fatto storico: questi anni saranno ricordati per la lenta cancellazione della presenza cristiana nei Balcani. Tuttavia, è davvero molto grave che tutto questo è accaduto sotto i nostri occhi, e non doveva accadere. I soldati della Nato non sono mercenari, in quanto rappresentano i diversi Paesi della comunità Internazionale, sono "il volto militare" della nostra civiltà e della nostra cultura, di un’idea di democrazia in cui la giustizia e i diritti umani sono importanti. Così, sotto i nostri occhi è stata cancellata la presenza cristiana in queste terre, per far posto a centinaia di moschee soprattutto wahabite, che - tengo a precisare - di per sé non sono un pericolo. Lo diventano se intorno a tali moschee vengono creati dei veri e propri campi di addestramento di fondamentalisti, come quello che abbiamo visitato di Novi Pazar.
Abbiamo costruito, dunque, una cintura di sicurezza che dovrebbe garantire i nostri Stati, ma la via dei Balcani resta ancora aperta a tutti gli effetti. D’altronde, anche la Bosnia è un Paese con un tale passato; tutti per esempio conoscono Zenica, ciò che ha rappresentato e ciò che magari ancora rappresenta. Portare all’attenzione del grande pubblico tali eventi è anche un dovere di cronaca, perché il mondo cambia anche così. È bene sapere che quando vi erano i serbi in Kosovo, non vi era il fondamentalismo islamico, è qualcosa che è sopraggiunto in un secondo momento e, sebbene possa essere considerato un semplice aspetto religioso, non bisogna sottovalutare il radicale cambiamento che è avvenuto. Oggi in Kosovo ci sono decine di migliaia di persone che credono vi sia una corrispondenza tra "pratica religiosa" e "pratica politica": il fondamentalismo è tutto lì, è l’idea che la religione possa comandare, che politica e religione si decidano nello stesso luogo.

È infatti una contraddizione che la Serbia è stata bombardata per aver risposto con le armi verso dei fondamentalisti. Lo stesso sta accadendo in Macedonia, a Brodec, dove persistono delle bande armate che il Governo macedone ha definito "terroristi", mentre per molti albanesi rappresentano la "resistenza". Ancora una volta, siamo davanti a delle forze che hanno abbracciato il fondamentalismo, fomentando l’odio tra i popoli. Visti i risultati, secondo lei la Nato poteva fare di più?
Credo che sia impossibile controllare del tutto questa regione, a meno che non viene istituito un protettorato che è una dittatura. Insediarsi in un Paese con la pretesa di controllare ogni aspetto sociale e politico - come la religione o la libertà di culto - è anacronistico, è impossibile prevedere tutto. Quando si arriva in un Paese che non si conosce bene e ci si appoggia alle forze locali, accade proprio questo. Del resto anche Bin Laden è stata una creatura dei servizi segreti americani e dell’Occidente: lo hanno fortemente finanziato quando l’obiettivo comune più importante era l’Unione Sovietica. Se l’obiettivo della Nato era quello di mantenere una certa stabilità politica, non poteva certo discettare sui wahabiti. Dato che non riesce a difendere in maniera dignitosa la comunità serba, così come era stato stabilito nel mandato iniziale, e costruire un "Kosovo multietnico", non può fare molto contro queste forze fondamentaliste. Anche perché il fondamentalismo si manifesta con un volto molto "sociale" - com’è accaduto per le forze di occupazione di Hamas - andando a sfruttare le contraddizioni e i problemi di un Paese che non ha nulla. Così intervengono i finanziamenti umanitari, la solidarietà, la costituzione di un sistema scolastico parallelo: aspetti che non si possono controllare così facilmente.

Lei crede che ci sarà una partizione del Kosovo?
Penso che le ragioni della "multietnicità" sono molto difficili da applicare. La presenza dei serbi nel Kosovo era molto capillare e vasta, e il loro venir meno ha provocato dei vuoti sul territorio. Anche la politica dei rientri dei serbi, tra l’altro molto costosa, si è rivelata inefficace perché molte case ricostruite sono state distrutte di nuovo, mentre chi fa ritorno in Kosovo conduce una vita di stenti, ha paura di muoversi e al massimo costruisce altre isole serbe intorno a sé. Dunque, la multietnicità è un’ipotesi poco reale, mentre la partizione del territorio è qualcosa che si è già venuta a creare sul territorio, con la creazione del Parlamento serbo del Kosovo. Il nuovo confine potrebbe essere sul fiume Ibar, che divide Mitrovica Nord da Mitrovica Sud.

Secondo lei, se vi sarà una partizione del Kosovo, avremo una contro-risposta nella Republika Srpska?
Sicuramente avrà una conseguenza sul Trattato di Dayton, anche se bisogna prestare attenzione che non sia rimesso in discussione. Nessuno vuole un nuovo conflitto in Bosnia tra serbi e bosniaci.

Crede che la stessa Belgrado abbia manipolato la questione del Kosovo?
Tutti hanno giocato sulla questione del Kosovo, che comunque è figlia degli errori della vecchia dirigenza serba, del nazionalismo serbo. Tanto è vero che è stata la Serbia a ridurre l’autonomia del Kosovo, chiudendo scuole ed università, vietando la lingua albanese. Ancora prima della guerra del 1999, vi è stato un conflitto strisciante che è durato più di 15 anni, durante il quale gli albanesi avevano costruito un sistema scolastico parallelo. Quindi vi è una forte responsabilità anche da parte della Serbia, che comunque non va usata come alibi per portare avanti una guerra interminabile. Se c’è un processo di pace, è bene lasciare alle spalle la guerra; commettere gli stessi errori dei serbi è sbagliato e non porta a nulla.

Secondo lei, i politici kosovari hanno mentito agli stessi albanesi del Kosovo? Questa può essere considerata una vera indipendenza?
Forse non hanno mentito, ma sicuramente hanno creato un’aspettativa che non verrà esaudita, soprattutto tra i giovani kosovari, che rappresentano al momento la risorsa più importante del Paese. Come i giovani di Belgrado, i ragazzi di Pristina desiderano viaggiare, studiare nelle Università occidentali, ma questo non è ancora possibile. All’indipendenza della provincia non è seguita un’apertura del Paese, è ancora una piccola prigione, che si può evadere solo facendo eterne e irrisolvibili file dinanzi ai consolati. Si è creata un’aspettativa enorme, anche di benessere economico, considerando che i dati economici sono ancora preoccupanti, con una disoccupazione giovanile del 40-50% che aspetta una soluzione. Chiudendo la popolazione in un recinto piccolo come il Kosovo, si crea una "bomba ad orologeria". Si è scatenato dunque un processo di aspettative, e se queste non saranno realizzate, vi saranno dei problemi tra l’opinione pubblica kosovara.

Rinascita Balcanica