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18 giugno 2007

Riforma legge fallimentare: falliranno più imprenditori


Il Consiglio dei ministri ha approvato il 15 Giugno lo schema del decreto legislativo della riforma del diritto fallimentare civile, dopo un procedimento difficile e tormentato ma che alla fine ha messo d'accordo sia la destra che la sinistra. Un decreto che andrà ad incidere in maniera diretta sull'ecosistema economico italiano, composto da piccole e medie imprese che lavorano in situazioni di estrema difficoltà, in un cotesto globalizzato e molto competitivo.
Le modifiche alla disciplina del codice civile sono state rilevanti, ma sono molti i lati oscuri del decreto che non vengono messi in evidenza dalla stampa e che restano tra le informazioni degli addetti ai lavori. Per tale motivo la Etleboro ha lanciato uno studio congiunto degli avvocati e i professionisti della Tela per fornire un'informazione indipendente e professionale sui rischi e le conseguenze legate alla riforma. L'obiettivo è quello di individuare quali sono gli aspetti critici della nuova legge e fornire alle nostre imprese gli strumenti e le informazioni necessarie per non essere impreparati dinanzi ad un argomento così delicato.

I punti critici del programma di riforma hanno come obiettivo di fondo quello di rafforzare la posizione del creditore e di fornire ai consumatori un mercato più sicuro e stabile, un mercato in cui "ogni debitore rimette i suoi debiti". I soggetti nell'interesse dei quali si snoda la norma sono essenzialmente gli utenti, nonché i finanziatori delle imprese - Banche, fornitori, clienti - mentre gli imprenditori vengono posti in una posizione di colpevolezza che dovranno scontare con il fallimento. Questa decisione, come poche, ha messo d'accordo l'una e l'altra fazione politica che, in maniera congiunta hanno deciso di porre rimedio agli errori di una legge che lasciava fuori dal fallimento il 70% delle piccole e medie imprese italiane in difficoltà finanziaria. Cosa che, secondo il Ministro della Giustizia, "indebolisce il rischio di impresa pregiudicando così le capacità competitive del sistema".
Gli aspetti controversi sono molti e gravi, e possono essere individuati nell'ampliamento della categoria delle imprese che possono essere soggette al fallimento, coinvolgendo anche quelle definite dal codice civile come "piccole imprese", nell'attribuzione dell'onere della prova della non appartenenza alla categoria a carico dell'imprenditore, nell'attribuzione di maggiori poteri al comitato dei creditori. A questo occorre aggiungere il fatto che le procedure alternative al fallimento, come il concordato preventivo, non sono sempre accessibili, per cui dinanzi ad un dissesto finanziario, il fallimento diviene l'unica alternativa dinanzi alla morsa dei creditori.

Prima di ogni cosa preme sottolineare che cambierà per il legislatore, e così per il giudice, la categoria degli imprenditori che possono fallire. Sino ad oggi la legge esclude gli imprenditori non commerciali e i piccoli imprenditori, ossia coloro che - secondo il codice civile all'art. 2083 - esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia, i piccoli commercianti e i coltivatori diretti del fondo. La nuova norma individua tra gli imprenditori che non possono fallire quelli che hanno rispettato, in maniera congiunta e contemporanea nei tre esercizi antecedenti, tre requisiti: un attivo patrimoniale non superiore a 300 000€, ricavi non superiori a 200 000€, debiti non superiori i 500 000€. Il superamento di uno di questi limiti, porta l'imprenditore ad entrare automaticamente nella categoria del fallimento, cosa che tuttavia è alquanto semplice considerando il limite posto ai ricavi conseguiti o alla sussistenza patrimoniale, in quanto sono dei parametri in cui rientrano la maggior parte delle piccole imprese.
Inoltre è stato stabilito che dovrà essere l'imprenditore a dimostrare di non aver superato questi limiti per evitare il fallimento, non i creditori che dichiarano l'insolvenza dell'impresa, che va a ricoprire una posizione di svantaggio all'interno della procedura fallimentare, già di per sé molto onerosa e difficile da affrontare per il piccolo imprenditore. Tuttavia questa modifica a parere del legislatore era necessaria perché l'impresa, a quanto pare, riusciva ad evitare il fallimento semplicemente reagendo passivamente all'accusa di insolvenza, magari presentando una documentazione incompleta. In verità, è ovvio che l'imprenditore cercava di evitare la dichiarazione del fallimento della sua attività, nonostante l'insolvenza e il dissesto finanziario.
Infine, stato ampliato il potere del comitato dei creditori, a cui vanno molti dei poteri, come l'approvazione del piano di liquidazione, che prima erano affidati al giudice : questi diventa un mero organo di supervisione, mentre il gruppo rappresentativo dei creditori gestirà in prima persona molte delle fasi della procedura.
Una volta che tale decreto verrà applicato le piccole imprese che si trovano in una situazione di dissesto finanziario - che sono maggiormente presenti al Sud Italia - rischiano di incorrere in una procedura di fallimento con l'onere di dover dimostrare la loro situazione di "piccola attività commerciale". Il sistema legislativo le pone in questo caso in una posizione molto svantaggiata, in quanto dovranno confrontarsi con il comitato dei creditori che ha la legge ancor più dalla sua parte. Ancora una volta, le piccole imprese sono succubi della legge del creditore, che vuole proteggere il sistema del "finanziamento dell'impresa", dei consumatori, ma non la realtà industriale o commerciale di un Paese come l'Italia che ha la sua ricchezza proprio nelle piccole dimensioni. Perché dunque lo Stato continua ad accanirsi contro il piccolo, con leggi fiscali, controlli e decreti sempre più severi, mentre resta indifferente dinanzi alle evasioni delle multinazionali? È chiaro che chi scrive le leggi non è la mano del rappresentante del popolo, ma la mano della lobby che vuole asservire la piccola imprenditoria alle leggi della globalizzazione. Questa che oggi viviamo è una vera e propria lotta ad armi impari, perché da una parte abbiamo il piccolo imprenditore con una famiglia e una tradizione alle spalle, dall'altra abbiamo la legge della competitività, della concorrenza sleale e della standardizzazione. Quando vedremo le nostre imprese fallire sentiremo dire dagli esperti che "erano chiaramente fuori mercato", ma nessuno in loro difesa dirà che allo stato attuale, con queste leggi e questo sistema bancario, non aveva altra scelta. Chi sarà debole, impreparato e isolato cadrà sotto i colpi della legge del più forte.