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22 gennaio 2008

Il terrorismo non ha salvato l'America


Lunedì nero per le borse dopo il grande flop del piano di emergenza di Bush. Vengono confermate le paure e i timori di chi, ancor prima dell'11 settembre parlava di crisi sistemica. La risposta delle borse è stata molto chiara. Troppo poco e troppo tardi, ma soprattutto inutile se i meccanismi e le strutture maggiormente responsabili di quanto accaduto sono rimaste impunite e al potere.

Il rischio recessione per gli Stati Uniti e il grande bluff del "piano di emergenza" presentato dal Presidente George Bush, diffonde il panico nelle borse e nelle principali piazze finanziarie. In calo le Borse europee con un margine di riduzione degli indici borsistici di oltre il 7%, bruciando in poche ore più di 400 miliardi di euro di capitalizzazione, con operazioni di svalutazione che hanno interessato principalmente i titoli bancari, ed in particolare Bnp Paribas, Ubs Bank, Société Générale e Commerzbank, anche se i dati più preoccupanti derivano dalle borse asiatiche che subiscono l'effetto di ritorno dello scoppio della bolla speculativa occidentale. Crolla Hong Kong, Singapore, Shanghai e Mumbai, con un crollo del 15% delle . Si salva invece Wall Street che è rimasta chiusa per il Martin Luther King Day, evitando così il peggio agli Stati Uniti, già devastati dal pessimismo e dalla incombente recessione. Dinanzi a noi lo scenario finanziario dell'11 settembre, senza tuttavia alcun attacco terroristico che ha sconvolto e ha manipolato la percezione degli eventi e degli shock sul mercato globale. Stranamente, lo scorso venerdì, la Banca Mondiale riceve una telefonata intimidatoria che annuncia un grave attentato nei confronti della Sede di Washington , tale da provocare la chiusura degli uffici per precauzione.

Secondo gli analisti, il piano di salvataggio dell'economia - una manovra di circa 150 miliardi di dollari - presentato dal Presidente George Bush e dal Governatore della Federal Reserve Bernard Bernanke, non salverà gli Stati Uniti da un baratro che è talmente evidente ed innegabile, da spingere le più alte Istituzioni americane ad intervenire d'urgenza, con sgravi fiscali, incentivi agli investimenti, riduzione dei tassi di interessi e aumento della base monetaria. E così, a dispetto delle dichiarazioni di George W. Bush che annuncia un piano di rilancio dell'economia di 1% del PIL, la Borsa ha subito di nuovo uno dei lunedì più neri di questi ultimi anni. La mobilitazione d'emergenza delle classe politiche e delle Istituzioni monetarie non hanno convinto gli investitori, né i cittadini americani che percepiscono ormai come inutili le misure volte a sostenere le classi più povere, con uno sgravio fiscale nei confronti di circa 90 milioni di persone, oltre all'invio di un assegno di 800 dollari per ogni contribuente, una detrazione di 1.600 dollari per l'acquisto della prima casa. Si stima tuttavia che tali sgravi potranno essere sostenuti solo fino al 2010, e in ogni caso, l'immissione sul mercato di una tale ricchezza potrà avere come effetto quello di drogare il prodotto interno lordo di almeno 2 punti senza garantire una vera ripresa dell'economia. Allo stato attuale, un rialzo dettato da un intervento così drastico, e artificiale, non può essere duraturo, in quanto la crisi strutturale tende inevitabilmente a riportare l'economia al di sotto dell'equilibrio economico. Per cui la manovra di recupero del Governo degli Stati Uniti sembra più che altro un tentativo di propaganda, volto a camuffare una grave crisi globale in una sofferenza congiunturale che potrebbe essere affrontata con una manovra di breve periodo.


La risposta delle borse è stata molto chiara. Troppo poco e troppo tardi, ma soprattutto inutile se i meccanismi e le strutture maggiormente responsabili di quanto accaduto sono rimaste impunite e al potere. Gli stessi incentivi del Governo Statunitense andranno a vantaggio delle stesse entità economiche che controllano il settore bancario e finanziario, e manovrano le operazioni speculative che hanno innescato la grande crisi di liquidità dei subprime. Ormai l'economia statunitense è allo sbaraglio e sono molti gli investitori esteri che comprano in maniera aggressiva negli Stati Uniti, approfittando della svendita delle società nonché del dollaro, che ha reso gli investimenti altamente competitivi. Solo l'anno scorso, gli investitori esteri hanno versato una somma record di circa $414 miliardi in assicurandosi così società, fabbriche, attraverso fondi di investimento di privati o aste pubbliche, mentre durante le prime due settimane del 2008 le sono stati investiti $22.6 miliardi in società americane, svendute per oltre la metà del loro valore attuale. Se la recessione aumenta e il dollaro cade ulteriore, il ritmo potrebbe accelerare ancora di più. Il dollaro debole ha fatto delle società e delle proprietà americane l'investimento più conveniente in termini globali, soprattutto per l'Europa e per il Canada, per l'Arabia Saudita e la Russia, nonché per i grandi esportatori come Cina e Germania .I beneficiari più evidenti sono sempre le banche di Wall Street come Merrill Lynch, Citigroup e Morgan Stanley che hanno venduto le loro proprietà ai fondi governativi dell'Asia e del Medio Oriente per compensare le clamorose perdite sui mercati bancari. Le entità giapponesi, cinesi, indiane, nonché arabe e emirate, hanno investito nel settore immobiliare, in quello siderurgico, energetico e in quello alimentare. Stiamo così assistendo in America ad un silenzioso movimento, quello del capitalismo statale, dove le grandi potenze "socialiste" di un tempo, stanno acquistando di sana pianta l'America capitalista.

Il lunedì nero ha così confermato le paure e i timori di molti che anni fa, già prima del crollo delle Torri Gemelle, cominciarno a parlare di crisi sistemica e della grande bolla finanziaria causata dall'inesistenza di qualsiasi controllo sulle pratiche speculative e sul valore della moneta in circolazione. Allora, un grande attentato terroristico coprì il crollo delle Borse che si è avuto a pochi mesi di distanza, come naturale conseguenza del disfacimento del sistema globale. Oggi possiamo dire che non è stato il terrorismo a far crollare le borse, ma qualcosa che è radicato così profondamente nel nostro sistema economico che continua ancora oggi a rivelare i suoi lati oscuri.

La consapevolezza che viviamo in un sistema malato si sta diffondendo sempre più, e lo si percepisce nelle piccole cose, con l'aumento dei costi bancari, sino alle grandi Istituzioni. Il Presidente dell'Eurogruppo, Jean-Claude Juncker ha osato pronunciare la parola fatidica di recessione, mentre il direttore generale del Fondo Monetario Internazionale (FMI) Dominique Strauss-Kahn ha stimato per la sua parte lunedì che la crisi causata dal rallentamento della crescita americana è estremamente "seria", e potrebbe mettere in ginocchio i paesi emergenti, perché continua sempre più a deteriorarsi: ora non si può più escludere una tale eventualità. Finalmente in Fmi ammette che si è materializzata la recessione che tutti hanno previsto, e che non passerà senza conseguenze anche nella zona Europea, che abbasserà la crescita del blocco europeo intorno al 2%. Almunia e Juncker hanno discusso persino l'idea di un piano di sostegno alla congiuntura in Europa, comparabile a quello degli Stati Uniti, in vista di una situazione economica ancora più rischiosa. Tuttavia, Juncker ha riconosciuto che i Paesi europei potrebbero ricorrere agli "stabilizzatori automatici, per attutire l'effetto dei rallentamenti economici, che autorizzano i Paesi che hanno migliorato i propri conti pubblici a non compensare il minor gettito fiscale dovuti ad un deterioramento dell'economia medianti i tagli della spesa pubblica, ammettendo la possibilità da parte dello Stato di sostenere le imprese e la produzione.

A questo punto, sebbene i Paesi Asiatici sembrano essere l'anello più debole, essendo destinazione di speculazioni finanziarie e operazioni di carry trade, rappresentano quegli attori che sono in grado di sostenere la crescita globale, mantenendo stabile la domanda di energia e di risorse, e immettendo sul mercato merci e prodotti. In assenza della spinta produttiva di queste economie, la recessione potrebbe essere ben più pericolosa.