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14 novembre 2008

Il made in Italy che non c'è


L'italianità è senz'altro qualcosa che ci appartiene, e dunque va difeso e sviluppato. Tuttavia in questi anni il mondo degli "italiani all’estero" è diventato solo un cunicolo di vipere e di affaristi senza scrupoli, uno sterminato labirinto di millantatori, che hanno usurato degli ideali per i propri interessi. Oggi bisogna invece rilanciare l’imprenditoria italiana che ha le capacità per diffondersi nel mondo, partendo innanzitutto dalle risorse che i mercati e i governi esteri possono offrire.

Sentiamo sempre più spesso parlare di italicità, di italianità e ancora di "made in italy" come un bene che appartiene al popolo italiano e sul quale bisogna, dunque, bisogna investire. Lo Stato italiano cerca ormai da anni di colmare quella abissale lacuna della frammentazione del suo popolo a causa delle grandi migrazioni, e bisogna ammettere che ci riesce con risultati davvero scarsi, mentre il resto viene affidato spesso all’iniziativa individuale delle comunità che si vengono a creare. L’apparato istituzionale, il cosiddetto "Sistema Italia" ha delle risorse davvero minime rispetto al territorio che dovrebbe coprire, anche perché stiamo parlando dell’intero globo. Da questo punto di vista, l’Italia è uno dei pochi Stati al mondo, se non l’unico, ad avere una cittadinanza globale, che direttamente o indirettamente tende a rispecchiarsi nell'ideale dell’italianità. Un fenomeno opposto è invece la cosiddetta "fuga di cervelli", ossia il desiderio di fuggire da una realtà che non garantisce una dignitosa carriera o in certi casi la sostenibilità del tenore di vita. L’italiano all’estero è così l’incarnazione della storia e delle contraddizioni del nostro Paese, è l’impulso alla scoperta, al viaggio e all’esportazione di sapere e cultura, ma è anche il dolore del passato, il malessere del presente e l’insicurezza nel futuro. Su questo siamo tutti d’accordo: l’italianità ci appartiene ed è qualcosa da difendere. Ma cosa significa oggi essere italiano all'estero, e perchè si deve sempre parlare di italiani d’Argentina oppure degli italo-americani?

Sembra ormai inevitabile ridursi a parlare di sagre, di feste popolari della "Little Italy", ad organizzare tombolate, "partite di calcetto" e commemorazioni della "Ellis Island". Le Associazioni di italiani all’estero che si trovano nel continente americano, sono per la maggior parte iniziative di italiani di seconda o terza generazione, in qualche modo destinate a scomparire con l’allungarsi delle generazioni. La cultura e le tradizioni che cercano di tramandare ormai si sono disperse nella commistione di usi e costumi del luogo, creando così una lingua e dei riti che nei fatti non esistono in Italia, non appartengono alla cultura italiana come tutti noi la conosciamo. Anche se va loro il merito di aver ricostruito un’identità nazionale tutta personale, non si può costruire su queste comunità un legame con la "madre patria", né un ponte economico. Sono realtà chiuse, che nascono e muoiono all’interno degli stessi quartieri italiani, costruiti ai margini delle periferie delle metropoli. Le Camere di Commercio, gli Istituti ICE, i Consolati e le Ambasciate molto spesso non hanno alcun contatto con queste entità, che in qualche modo restano legati all’immagine che si sono costruiti.

Ancora diversa è poi la realtà degli "italiani" che all’estero hanno creato la loro ragione di vita, scrivendo libri sulle grandi emigrazioni, intavolando discussioni sulla politica e l’economia italiana quando sono stati i primi ad abbandonare il Paese. Si definiscono la ricchezza ripudiata dallo Stato, e molto spesso si traducono solo in grandi studiosi "del modo ideale di imbrogliare il prossimo". Chiedono che siano create scuole italiane per mantenere la cultura italiana, e allo stesso tempo sono contrari alla creazione nel di scuole straniere e di "commistioni" con gli immigrati nel loro Paese. In questi anni, abbiamo avuto molte esperienze di questi famosi patrioti, di questi grandi condottieri di prosciutti, di sagristi e esperti di "panettonate", che si fanno strada negli uffici dei Ministeri sulla falsa riga degli studi "per creare laboratori di intelligenze". Teorie trite e ritrite, manoscritti e carta straccia, che ritraggono solo frustrazioni di pseudo-globalizzazioni inesistenti, tutte belle "storie" che sono da sempre terreno fertile di tanti personaggi che marciano sull’italianità per interessi personali, un po’ per propaganda e speculazione fine a sé stessa, un po’ perché inconsapevolmente cavalcano cavalli di battaglia sbagliati. Anche nel mondo degli italiani all’estero, è stata dunque creata una sorta di lobby che ha ridotto quest’universo sterminato di cultura ed impresa, alle solite sceneggiate nostalgiche che da anni non aggiungono niente di nuovo e non contribuiscono allo sviluppo del Paese. Sul cosiddetto "made in italy" vi sono migliaia di processi in corso, battaglie e controversie per rivendicare la paternità nel nome, dei marchi e delle denominazioni.

La verità è che gli "italiani all’estero" finanziati dallo Stato non sono uniti, sono un cunicolo di vipere e di affaristi senza scrupoli, uno sterminato labirinto di millantatori, che mettono a ferro e fuoco i Ministeri solo per spillare quattro spiccioli allo Stato, come sempre moralmente ricattato per la sua inefficienza e la sua assenza. Il Ministero degli Italiani nel Mondo, così come la Farnesina, sono ormai inondati da progetti di data base, di media, di quotidiani, di piattaforme multimediali, di uffici di rappresentanza e di intermediazione. Possiamo però assicurarvi che ognuno di essi si sgonfia in un mero processo di copy and paste, di produzione di informazione fine e sé stessa, e solo nel migliore dei casi di esternalizzazione dei servizi ad entità private. Molte "aziende" che abbiamo avuto l’occasione di conoscere, oltre ad avere grandi buchi neri nei loro bilanci con milioni di euro di finanziamenti scomparsi, sono ancorate alle menzogne sul business italiano, che loro stessi hanno contribuito a distruggere.

Saremmo veramente curiosi di vedere cosa hanno fatto in tutti questi anni queste vacche grasse malaticce, vorremo anche conoscere le aziende che sono riusciti a crescere grazie a queste strutture. In realtà non c’è nulla dietro questa italicità, dietro questo "made in Italy" e l’associazionismo italiano. Molte spesso vi sono tante aziende straniere - cinesi, turche, greche, romene, inglesi, belgi - che usano questi marchi "italici" e hanno conquistano i mercati esteri : cosa ha fatto lo Stato italiano, con tutte le strutture che ha finanziato, per proteggere il vero "made in Italy" ed impedire che imprenditori esteri si potessero impossessare della nostra immagine. Un tempo, i muratori italiani andavano in giro per il mondo e aprivano ristoranti, e se alla fine dovevano servire "la pasta con il kechup" non aveva importanza, perché bisognava vendere. Oggi invece, il mercato della ristorazione all’estero è nelle mani di albanesi e romeni, che parlano benissimo l'italiano e, con le loro insegne italiche, hanno invaso il mercato. Dinanzi a tale situazione, oltre alle timide dichiarazioni di deputati degli italiani nel mondo, c’è il totale immobilismo ed indifferenza.

In realtà, dovremmo imparare dai francesi, dai tedeschi e dai russi, che entrano nei mercati esteri tramite società logistiche, avvocati, professionisti e consulenti, con le tecnologie e il loro sapere e le loro risorse. In un certo senso bisogna rilanciare l’imprenditoria italiana che ha la capacità e la forza di diffondersi nel mondo, traendo beneficio dalle risorse umane e materiali estere. Il potenziale strategico non va cercato negli italiani residenti in loco, ma nelle popolazioni indigene che condividono la cultura Italiana, e hanno un forte sentimento verso l’Italia. Da questo punto di vista, occorre concentrare l’attenzione sui mercati prossimi, vicini logisticamente con i quali è possibile sviluppare una rete di scambi immediata, indotta spontaneamente dalla specializzazione dell’economia. In questo, bisogna rifarsi alle vecchie teorie di Keynes e Ricardo, individuando nello scambio delle risorse il mezzo per coltivare "la ricchezza delle nazioni".
L’interscambio deve essere lo scopo ultimo dei progetti da realizzare, facendo ricorso a strumenti informatici, a servizi di intelligence economica, per creare infine delle Camera di Commercio transnazionali e virtuali. Progetti che devono essere controllati direttamente dalle alte Istituzioni dello Stato, come arma economica per la conquista dei mercati. Coordinando le strutture di sistema già esistenti, che non riescono a muoversi perché intrappolate nella loro stessa burocrazia, queste entità virtuali devono dare un reale supporto all'imprenditoria italiana utilizzando le strutture logistiche e i poteri locali. L’immagine delle imprese italiane dovrebbe essere di netto distacco rispetto al classico "made in italy", ridotto ai classici stereotipi del "prodotto tipico" , per ampliarsi alle conoscenze, alle tecnologie e ai modelli industriali dell’Italia.